Sui prenomi


L'articolo non è un trattato filosofico, ma una risposta a caldo ad una sentenza che non mi è piaciuta, che potete leggere qui e si può così riassumere: dei genitori emigrati hanno trascritto il nome francese della loro figlioletta, Andrée, come Andrea – ed il tribunale di Mantova ha dichiarato che questo non si poteva fare perché (in Italia) Andrea è un nome maschile, e non si può perciò dare ad una bambina perché “non indica la corretta sessualità” (così dice l’occhiello del titolo).

Non ho potuto fare a meno di collegare codesta sentenza al nefasto decreto nazista dell’agosto 1938 in cui si individuava una lista di nomi ebraici (tra cui “Hamor”, che in ebraico vuol dire “Asino”, e perciò era stato inserito solo per disprezzo), e si imponeva agli ebrei tedeschi il cui nome non appariva nella lista ad aggiungere “Israel” o “Sara” entro il 1 Gennaio 1939.

La sentenza ed il decreto si ispirano alla medesima logica: il nome deve manifestare un’essenza esattamente come l’etichetta indicare il principio attivo di un farmaco – ed il nome che, per commissione (nel caso dei genitori di Andrée) od omissione (nel caso degli ebrei perseguitati dai nazisti [1]), indica un’essenza della persona diversa da quella  “reale”, è una frode esattamente come un’etichetta che non indica quale principio attivo è presente ed in che dose.

Il problema è che le persone non si preparano in laboratorio, né la loro “essenza” è rilevabile con un’analisi chimica; il nome spesso viene usato per imporre un programma di vita ad una persona, e l’esempio meno raccomandabile è dato dalle “candele della memoria” di cui parla la psicoanalista israeliana Dina Wardi in questo libro: dei genitori che non hanno elaborato il lutto per la morte di una o più persone care (Dina Wardi lavora con i superstiti della Shoah, ma l’esempio è generalizzabile) sono tentati di farle rivivere nei loro figli, imponendo loro i nomi delle persone care, e pretendendo che essi non solo ne tramandino la memoria (come si fa normalmente), ma le reincarnino.

Il nome qui non è più un’etichetta che indica il principio attivo del farmaco, ma una ricetta per la sua preparazione; e gli scompensi che nascono quando si pretende che una persona viva al posto di un’altra (o di altre) sono particolarmente evidenti tra i pazienti di Dina Wardi, ma non limitati ad essi. Un caso simile è quello di David Reimer, che fu obbligato a vivere da femmina quando avrebbe voluto vivere da maschio – si cercò di preparare un prodotto per cui mancavano gli ingredienti.

Sono atteggiamenti abbastanza comuni, purtroppo; ma un altro atteggiamento comune suggerisce un ottimo rimedio.

In Italia molti maschietti hanno per secondo prenome “Maria” – ciò significa che non si vuole che essi reincarnino la Madonna, ma che siano sotto la sua protezione, e siano virtuosi come lei; per un motivo analogo molte donne ebree hanno tra i loro prenomi "Ester", la regina del coming-out; nei paesi mussulmani il prenome maschile più diffuso è “Mahmud” – perché i genitori vogliono che il loro figlio sia degno di lui; molte ragazze palestinesi hanno il nome di una città, che è quella da cui è stata esiliata od è fuggita la famiglia durante la Guerra d’Indipendenza o Nakba – perché i genitori vogliono che non si dimentichi da dove vengono; e l’attribuire ai propri figli il nome dei propri congiunti può essere inteso come l’augurio che siano degni di loro.

In tutti questi esempi (salvo forse quello delle ragazze palestinesi) il nome non indica un’essenza, ma una relazione che si vuole stabilire tra il figlio e delle persone con particolari qualità: la Madonna, Ester, Maometto, una città, i parenti. Non si chiede più al nome di dichiarare quello che una persona è, ma con chi o cosa si vuole che entri in rapporto.

E’ una logica postmoderna: l’identità non si basa più su un’essenza “obbiettivamente riscontrabile” (espressa dal pisello nel caso dei maschietti, fatto in un modo per gli etero ed in un altro per i gay, secondo il lombrosiano Giuseppe Falco [2], e dal naso nei sogni degli antisemiti, convinti che il gentile avesse un naso e l'ebreo un altro [3]), ma sulle relazioni che si stabiliscono.

Lascio ai giuristi stabilire se la sentenza mantovana è riformabile, ma faccio notare che il presupposto che il nome debba indicare inequivocabilmente se il latore è maschio o femmina ha poco senso anche dal punto di vista “moderno”: in Israele sono molto comuni i nomi “unisex” (Yarden, Yam, Yona, Simha, Liel, Shaiel, Gal, Agam, ecc. – ringrazio la mia amica Bianca per avermene fornito la lista parziale, a cui aggiungo Zohar), e non sono un problema per nessuno!

Per non parlare del fatto che in molti casi è vietato prendere in considerazione il sesso anagrafico di una persona, e nei casi in cui sia necessario conoscerlo, esso viene esplicitamente richiesto e non si chiede a nessuno di congetturare a partire dal suo prenome!

Nessuno può dire: “Si chiamava Andrea, la credevo un uomo, mi ha fregato!”

Raffaele Ladu



[1] Osservate che secondo la logica nazista, gli ariani non avevano bisogno di aggiungere al loro prenome “Hermann” o “Luise” – è la medesima logica per cui nella nostra società eterosessista chi è etero non ha bisogno di dichiararlo, perché incarna la persona “normale”, ed al suo confronto gli altri sono “anormali”, e tocca a loro “distinguersi”.

L'invito a discriminare non sta solo nell'"outing" imposto dalla legge, ma anche nell'individuare un'identità "normale" (gli ariani) alla quale contrapporre quelle "anormali" (gli ebrei, per cominciare).
[3] E' ovvio che il naso non distingue nessuno – tant’è vero che gli antisemiti hanno dovuto imporre agli ebrei lo “sciamanno” o la “stella gialla”; ma mi serviva un secondo grezzo esempio della logica di chi ritiene che il corpo debba manifestare l’essenza di una persona, e quando non riesce a trovare un dettaglio somatico rilevante, lo inventa.

Va inoltre aggiunto che secondo David Hirsch, citato da Matthew Biberman, l’epoca postmoderna comincia proprio con la Shoah, che portando alle estreme conseguenze gli assunti della modernità, ne ha rivelato le aporie.

Moderna è la logica sia della criticabile sentenza italiana che del nefasto decreto nazista, postmoderna la soluzione che propongo.