Risposta a rav Gilles Bernheim


rav Gilles Bernheim
L’articolo [1]Mariage homosexuel, homoparentalité et adoption = Matrimonio omosessuale, omogenitorialità ed adozione” del Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim ha avuto l’onore di essere applaudito da Papa Benedetto 16° e di suscitare un dibattito sulla newsletter [2] dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane [3], prendendo lo spunto dal commento [4a oppure 4b] che ne ha fatto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera.

Gli articoli della newsletter in proposito che ho trovato finora [10 Gennaio 2013 – 28 Tevet 5743] hanno i numeri [5a, 5b, 5c, 5d], e come potete vedere, mentre [5b] cerca di opporsi timidamente all’omofobia esplicita di [5a] ed a quella implicita nel fatto che gli altri articoli affrontassero solo questioni di metodo (come se il merito fosse già assodato), omofobia rimarcata dall’articolo [6], una riflessione del 2007 del Rabbino Capo di Roma Riccardo di Segni (primario di radiologia all’Ospedale San Giovanni di Roma – quindi, si presume, al corrente del fatto che l’omosessualità non è più considerata una patologia medico-psichiatrica).

Ho voluto abbozzare una risposta a rav Bernheim soprattutto perché, anche grazie ai pensatori, agli scienziati, e ad altre figure intellettuali di notevole rilievo che hanno avuto almeno dall’Emancipazione in poi, gli ebrei godono di maggiore autorità morale rispetto ai cristiani, ed è più difficile ignorarli quando sbagliano.

La mia sfortuna è che non ho mai studiato il francese, quindi sono costretto a citare i brani interessanti di rav Bernheim due volte: la prima in francese, la seconda nella traduzione che ho escogitato - e fatto correggere da Daniele Speziari, che qui ringrazio.

Cominciamo da questo brano:
L’argument du mariage pour tous ceux qui s’aiment ne tient pas: ce n’est pas parce que des gens s’aiment qu’ils ont systématiquement le droit de se marier, qu’ils soient hétérosexuels ou homosexuels.Par exemple, un homme ne peut pas se marier avec une femme déjà mariée, même s’ils s’aiment. De même, une femme ne peut pas se marier avec deux hommes, au motif qu’elle les aime tous les deux etque chacun d’entre eux veut être son mari. Ou encore, un père ne peut pas se marier avec sa fille même si leur amour est uniquement paternel et filial.
Che ho così inteso:
L’argomento del matrimonio per tutti coloro che si amano non regge: non è perché delle persone si amano che hanno sistematicamente il diritto di sposarsi, che siano eterosessuali od omosessuali. Per esempio, un uomo non può sposarsi con una donna già sposata, anche se si amano. Allo stesso modo, una donna non può sposare due uomini, con la scusa che ella ami entrambi e che ognuno di essi voglia essere suo marito. Od ancora, un padre non può sposare la figlia anche se il loro amore è unicamente paterno e filiale.
Allora, i primi esempi di rav Bernheim hanno a che fare con il divieto di poligamia, di cui la giustificazione razionale è quella già espressa dal Vangelo, ovvero che è molto difficile avere più di un coniuge e trattarli tutti allo stesso modo, e perciò la poligamia diventa quasi sempre occasione di ingiustizia e sfruttamento; del resto, gli stessi ebrei (vedi qui) fin dai tempi biblici guardavano alla poligamia con sfavore (pur regolamentandola per tutelare almeno un po’ le mogli) e nell’anno 1000 dell’Era Volgare hanno infine emanato un decreto che la proibisce, salvo casi estremi, ed essa è vietata anche dalla legislazione israeliana.

Per quanto riguarda il caso del padre e della figlia, siamo di fronte al problema dell’incesto: tra adulti consenzienti non sarebbe un problema, ma in quasi tutti i casi implica una violenza, ed è quindi molto opportuno vietarlo; per quanto riguarda l’inciso “anche se il loro amore è unicamente paterno e filiale”, esso mi pare infelice, visto che non ha molto senso un matrimonio in cui non sia previsto l’esercizio della sessualità tra i coniugi.

Più in generale, l’argomento di rav Bernheim è questo: non è vero che tutti i matrimoni sono consentiti, perché in realtà solo alcuni lo sono. È anche l’argomento della Chiesa cattolica, secondo cui il matrimonio non è un diritto, ma le leggi secolari dissentono: già i romani dissero che agli antichi piacque che ognuno avesse la massima libertà di sposarsi, il Codice civile italiano parla non di ciò che consente un matrimonio, ma di ciò che lo impedisce, e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ed una recente sentenza della Corte Costituzionale italiana, pongono il matrimonio tra i diritti soggettivi dell’individuo.

Quindi la logica di rav Bernheim va rovesciata, implicitamente per interpretare il diritto vivente, esplicitamente per fondare i diritti futuri: tutti i matrimoni sono leciti, salvo quelli che a prudente giudizio del legislatore sono più nocivi che utili agli sposi – e tra essi rientrano quelli esemplificati da rav Bernheim; il matrimonio gay non ha questi problemi, o meglio, non ne ha più del matrimonio eterosessuale.

Rav Bernheim ricorda che le coppie omosessuali possono già ricorrere ai PACS in Francia, che, almeno a suo dire, offrono ai contraenti quasi tutte le facilitazioni dei matrimoni etero, e quindi a suo giudizio non è il caso di istituire il matrimonio omosessuale, ma di perfezionare la tutela offerta dai PACS – riporto l’argomento per amore di completezza, visto che in Italia non vale.

Rav Bernheim argomenta qui:
Toute l’affection du monde ne suffit pas, en effet, à produire les structures psychiques de base qui répondent au besoin de l’enfant de savoir d’où il vient. Car l’enfant ne se construit qu’en se différenciant, ce qui suppose d’abord qu’il sache à qui il ressemble. Il a besoin, de ce fait, de savoir qu’il est issu de l’amour et de l’union entre un homme, son père, et une femme, sa mère, grâce à la différence sexuelle de ses parents. Les enfants adoptés, eux aussi, se savent issus de l’amour et du désir de leurs parents, bien que ceux-ci ne soient pas leurs géniteurs.

Le père et la mère indiquent à l’enfant sa généalogie. L’enfant a besoin d’une généalogie claire et cohérente pour se positionner en tant qu’individu. Ce qui fait l’humain depuis toujours et pour toujours est une parole dans un corps sexué et dans une généalogie. Nommer la filiation, ce n’est pas seulement indiquer par qui l’enfant sera élevé, avec qui il aura des relations affectives, qui sera son adulte «référent», c’est aussi et surtout permettre à l’enfant de se situer dans la chaîne des générations. Depuis des millénaires, le système sur le quel est fondée notre société est une généalogie à double lignée, celle du père et celle de la mère. La pérennité de ce système garantit à chaque individu qu’il peut trouver sa place dans le monde où il vit, car il sait d’où il vient. Un exercice courant, dès le cours préparatoire, est d’ailleurs de demander à l’enfant de reconstituer son arbre généalogique car, grâce à cet exercice, l’enfant se situe par rapport à son père et à sa mère et aussi par rapport à la société.

Aujourd’hui, le risque de brouiller la chaîne des générations est immense et irréversible. De même que l’on ne peut détruire les fondations d’une maison sans que celle-ci ne s’effondre, on ne peut renoncer aux fondements de notre société sans mettre celle-ci en danger.

L’homoparentalité n’est pas la parenté. Le terme «homoparentalité» a été inventé pour pallier l’impossibilité pour des personnes homosexuelles d’être parents. Ce mot nouveau, forgé pour instaurer le principe d’un couple parental homosexuel et promouvoir la possibilité juridique de donner à un enfant deux «parents» du même sexe, relève de la fiction. En effet, ce n’est pas la sexualité des individus qui a jamais fondé le mariage ni la parenté, mais d’abord le sexe, c’est-à-dire la distinction anthropologique des hommes et des femmes.
Ainsi, en délaissant la distinction hommes-femmes et en mettant en exergue la distinction hétérosexuels-homosexuels, les personnes homosexuelles revendiquent non pas la parenté (la paternité ou la maternité), qui implique le lien biologique unissant l’enfant (engendré) à ses deux parents (géniteurs), mais la «parentalité» qui réduit le rôle du «parent» à l’exercice de ses fonctions éducatives notamment. Or, même dans le cas des enfants adoptés, il ne s’agit pas seulement d’éduquer, mais de recréer une filiation. Il faut donc réaffirmer ici avec force qu’être père ou mère n’est pas seulement une reference affective, culturelle ou sociale. Le terme «parent» n’est pas neutre: il est sexué. Accepter le terme «homoparentalité», c’est ôter au mot «parent» la notion corporelle, biologique, charnelle qui lui estintrinsèque.
Ovvero:
Tutto l’affetto del mondo non basta, infatti, a produrre le strutture psichiche di base che rispondono al bisogno del bambino di sapere da dove viene. Perché il bimbo non si costruisce che differenziandosi, il che suppone che subito sappia a chi assomiglia. Ha bisogno, perciò, di sapere che è uscito dall’amore e dall’unione di un uomo, suo padre, e di una donna, sua madre, grazie alla differenza sessuale dei suoi genitori. Anche i bambini adottati sanno di essere usciti dall’amore e dal desiderio dei loro genitori biologici, anche se non sono i loro genitori legali.

Il padre e la madre indicano al bambino la sua genealogia. Il bimbo ha bisogno di una genealogia chiara e coerente per posizionarsi come individuo. Quello che fa l’umano ora e per sempre è una parola in un corpo sessuato ed in una genealogia. Nominare la filiazione non indica soltanto da chi il bimbo sarà allevato, con chi avrà delle relazioni affettive, chi sarà il suo adulto “di riferimento”; è soprattutto permettere al bimbo di situarsi nella catena delle generazioni. Da millenni il sistema sul quale è fondata la nostra società è una genealogia a doppia linea, quella del padre e della madre. La perennità di questo sistema garantisce ad ogni individuo di trovare il proprio posto nel mondo in cui vive, poiché sa da dove viene. Un esercizio corrente, fin dalla prima elementare, è anche chiedere al bambino di ricostruire il suo albero genealogico perché, grazie a questo esercizio, il bimbo si situa in rapporto a suo padre ed a sua madre, e pure in rapporto alla società.

Oggi, il rischio di confondere la catena delle generazioni è immenso ed irreversibile. Allo stesso modo in cui noi non possiamo distruggere le fondamenta di una casa senza che crolli, non si può rinunciare ai fondamenti della nostra società senza metterla in pericolo.

L’omogenitorialità non è la genitorialità. Il termine “omogenitorialità” è stato inventato per ovviare all’impossibilità per le persone omosessuali di essere genitori. Questa parola nuova, forgiata per instaurare il principio di una coppia genitoriale omosessuale e promuovere la possibilità giuridica di dare ad un bimbo due “genitori” del medesimo sesso, è una finzione. Infatti, non è mai stata la sessualità degli individui a fondare il matrimonio o la genitorialità, ma innanzitutto il sesso, ovvero la distinzione antropologica degli uomini e delle donne.

Così, trascurando la distinzione uomini-donne, e mettendo in risalto la distinzione eterosessuali-omosessuali, le persone omosessuali rivendicano non la “parenté” (la paternità o la maternità), che implica il legame biologico che unisce il bambino (con un genere) ai suoi due genitori legali (o biologici) ma la “parentalité”, che riduce il ruolo del “genitore” all’esercizio delle funzioni educative. Ma, anche nel caso dei bambini adottati, non si tratta solo di educare, ma anche di ricreare una filiazione. Occorre quindi riaffermare qui con forza che essere padre o madre non è solo un riferimento affettivo, culturale o sociale. Il termine “genitore” non è neutro: è sessuato. Accettare il termine “omogenitorialità” significa omettere dalla parola “genitore” la nozione corporea, biologica, carnale che estrinseca.
Ho citato questo lungo brano perché tagliarlo a pezzettini non lo avrebbe reso più leggibile. Cominciamo dal problema della genealogia: so che i rabbini ne sono ossessionati, tanto è vero che di un famoso rabbino si dice sempre non solo quello che ha scritto e fatto, ma anche da quali altri illustri rabbini discende; i libri di genealogie rabbiniche sono avvincenti come quelli di genealogie nobiliari, ed anche di più, visto che ci sono casati di rabbini dispersi nei cinque continenti, ed anche in Italia ci sono rabbini che vantano di discendere dai prigionieri che Tito portò a Roma per il suo trionfo dopo aver espugnato Gerusalemme nel 70 dell’Era Volgare.

In altri contesti, non è così: una legge italiana del 1957 ha vietato di indicare paternità e maternità nei documenti e negli atti pubblici, in quanto nome, luogo e data di nascita sono ritenuti sufficienti ad identificare una persona; la Costituzione italiana ha abolito i titoli nobiliari, ed a scuola non si chiede di ricostruire l’albero genealogico. L’opinione prevalente è che ogni persona debba affermarsi grazie alle proprie doti ed ai propri meriti, non grazie al proprio retaggio; se la famiglia aiuta un proprio membro grazie alle proprie relazioni ed alla propria influenza, questo viene disapprovato (anche se molto praticato).

Quindi, possiamo dire che l’avere una genealogia a doppia catena è assai meno importante per noi di quanto lo sia per rav Bernheim; egli dice che adottare non vuol dire solo educare, ma anche dotare di una filiazione; però non si capisce perché due genitori del medesimo sesso non possano agganciare il proprio figlio alla propria genealogia, e fare dei propri fratelli i suoi zii, e dei propri genitori i suoi nonni.

A questo punto egli interviene dicendo che il genitore deve essere per forza sessuato; viene voglia di ribattere che “omosessuale” non vuol dire “cappone”, ma egli intende dire che il bimbo deve constatare la differenza tra il sesso maschile e quello femminile nei propri genitori. Sinceramente, a che pro?

La maggior parte dei genitori evita di mostrare ai figli le proprie differenze anatomiche (anche se in qualche modo deve informarli che esistono e sono importanti, nonché divertenti per il 96% delle persone), e dobbiamo pensare che la differenza sessuale non sia una questione di anatomia, bensì di ruoli e comportamenti.

Non credo di dover ricordare a rav Bernheim questo brano biblico, Numeri 11:12, che cito dalla Nuova Riveduta:
L'ho forse concepito io tutto questo popolo? O l'ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: Pòrtatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri?
Se nella Bibbia Mosé si lamenta di essere costretto a fare da balia al popolo d’Israele, il grande filosofo ebreo Emmanuel Lévinas (1905-1995) approfitta dell’episodio per parlare della “maternità” di Mosè [7a].

Lévinas non è un filosofo facile, e consiglio a chi vuole approfondire di cominciare leggendo i link [7a, 7b, 7c, 7d, 7e]; ma è ovvio che lui parla di una condizione che non è semplicemente corporea: la “maternità” per Lévinas è il paradigma della responsabilità etica: la madre porta in sé un altro essere, se ne prende cura finché è in lei, senza assimilarlo, senza pretendere di renderlo uguale a sé – come è accaduto al sempre stressato e spesso disperato Mosé.

In questo senso, chiunque può essere “materno”, anzi, Lévinas dice che questa è una condizione “pre-originaria”, che ogni persona ha necessariamente, e non ha bisogno di impararla da una madre “empirica” a preferenza di una qualsiasi altra persona.

Si può aggiungere che per l’ebraismo Dio è maschio, ma in ebraico “misericordia” si dice “rachamim”, parola con la medesima radice di “rechem = utero” – eppure a chiamare Dio “Av ha-Rachamim = Padre della Misericordia” lo si loda, non lo si bestemmia (tanto è vero che quella locuzione è l'incipit di una bella preghiera per i defunti di cui si trovano innumerevoli versioni in YouTube); per completezza aggiungo che in arabo Allah è “Ar-Rachman Ar-Rachim = Clemente Misericordioso”, proprio per lo stesso motivo etimologico.

Lévinas ha la sua concezione della differenza sessuale, che gli attirò le feroci critiche di Simone De Beauvoir, ma nella versione più tarda del suo pensiero diventa evidente che per lui la “femminilità” indica la capacità di accogliere ed ospitare – e non è esclusiva delle donne “empiriche”: chiunque ha in sé la caratteristica “pre-originaria” della femminilità.

Insistere che i genitori di un bambino devono avere un corpo maschile ed un corpo femminile non ha quindi molto senso: chiunque può agire questi ruoli, a seconda dei casi; quello che inoltre temo è che tanta insistenza sulla mascolinità e femminilità corporea celi la nostalgia per dei ruoli genitoriali rigidamente differenziati, aldilà di quello che è raccomandabile.

Faccio un esempio – può non piacervi, ma io conosco meglio la psichiatria della pedagogia, e non mi è venuto in mente niente di meglio: moltissime coppie genitoriali giocano al “genitore severo – genitore indulgente”, e di solito il padre è burbero e severo, mentre la madre accogliente ed indulgente.

Nella maggior parte dei casi, avverte il famoso psichiatra John Gunderson, questo gioco è perlomeno innocuo; ma ci sono dei bambini, che rischiano di diventare adulti disturbati, per i quali questa divisione dei ruoli può essere assai deleteria per la loro salute mentale, e consiglia ai genitori che si accorgono di questo, di adottare un comportamento più omogeneo.

Non è che i genitori in questa situazione dovranno produrre un certificato medico che dimostri perché loro non possono giocare a fare il padre stereotipico e la madre stereotipica? Non sarebbe meglio lasciare ai genitori la flessibilità che ci vuole per meglio rapportarsi al proprio figlio, intervenendo solo in caso di negligenza od abuso?

In un caso rav Bernheim non ha capito la posta in gioco e credo che abbia segnato un simpatico autogol: ha inteso l’argomento delle centinaia di migliaia di bimbi allevati da coppie omogenitoriali solo come un appello a regolarizzare la situazione di quelle coppie consentendo loro di sposarsi; la sua risposta è stata quella di procedere invece sulla falsariga di una sentenza della Corte di Cassazione francese del 2006.

Ma lasciamo parlare il rabbino – è una lettura edificante:
La compagne homosexuelle peut déjà partager l’exercice de l’autorité parentale avec la mère. Laquestion de savoir si ce partage de l’autorité parentale avec un tiers peut s’opérer au sein d’un couple homosexuel a déjà été posée à la Cour de cassation, la quelle a accepté que l’autorité parentale puisse être partagée entre la mère et la compagne homosexuelle de celle-ci (Cour de cassation, 24 février 2006). Dans son arrêt, la première chambre civile de la Cour de Cassation affirme que le Code civil «ne s’oppose pas à ce qu’une mère seule titulaire de l’autorité parentale en délègue tout ou partie de l’exercice à la femme avec laquelle elle vit en union stable et continue, dès lors que les circonstances l’exigent et que la mesure est conforme à l’intérêt supérieur de l’enfant». «Il est ainsi jugé que l’intérêt supérieur des enfants peut justifier, en pareilles circonstances, que l’autorité parentale soit partagée entre une mère et sa compagne », a expliqué la Cour de cassation.

Il n’est pas nécessaire d’ajouter encore à la loi. Le droit français est suffisamment riche pour répondre aux situations des familles recomposées actuelles, y compris les «familles» homoparentales. Au lieu d’ajouter encore au dispositif légal, ne faut-il pas simplement chercher à mieux faire connaître ce qui existe déjà et qui répond aux situations existantes? Mieux informer sur ce dispositif permettrait de l’utiliser pleinement et de trouver aussi des solutions souples, sur mesure, pour permettre au «beau-parent» ou à un autre tiers d’être associé à l’exercice de l’autorité parentale à l’égard de l’enfant, si cela s’avère nécessaire et conforme à l’intérêt de cet enfant.
Ovvero (spero che vi divertiate a leggere come io mi sono divertito a tradurre):
La compagna omosessuale può già condividere l’esercizio della potestà genitoriale con la madre. La questione di sapere se questa condivisione della potestà genitoriale con un terzo può operare all’interno di una coppia omosessuale è stata già posta alla Corte di Cassazione, la quale ha accettato che la potestà genitoriale possa essere condivisa tra la madre e la compagna omosessuale di costei (Corte di Cassazione, 24 Febbraio 2006). Nel suo dispositivo, la Prima Camera Civile della Corte di Cassazione afferma che il Codice Civile “non vieta che una madre sola titolare della potestà genitoriale ne deleghi l’esercizio in tutto od in parte alla donna con cui ella vive in un’unione stabile e continua, in quanto richiesto dalle circostanze, e se la misura è conforme all’interesse superiore del bambino (…) Si giudica inoltre che l’interesse superiore del bambino può giustificare, in circostanze analoghe, che la potestà genitoriale sia condivisa tra una madre e la sua compagna”, ha spiegato la Corte di Cassazione.

Non è necessario aggiungere alcunché alla legge. Il diritto francese è abbastanza ricco per rispondere alle situazioni delle attuali famiglie ricomposte, comprese le “famiglie” omogenitoriali. Anziché modificare ancora la legge, non sarebbe semplicemente il caso di cercare di far meglio conoscere ciò che esiste già e che risponde alle situazioni esistenti? Informare meglio su questo dispositivo permetterebbe di usarlo appieno e di trovare inoltre delle soluzioni delicate, su misura, per permettere al “genitore bonus” o ad un altro terzo di essere associato all’esercizio della potestà genitoriale verso il bimbo, se questo sarà necessario e conforme all’interesse di questo bambino.
Quello che mi ha divertito è che, anche se il rabbino (e la Corte) hanno prudentemente parlato di “autorité parentale = potestà genitoriale”, è anche vero che, se la corte ha giustamente in mente l'"l’intérêt supérieur de l’enfant = interesse superiore del bambino", deve concedere la potestà genitoriale sul figlio altrui (e vi garantisco per esperienza che è più difficile fare il genitore dei figli altrui che dei propri) solo a chi si dimostra in grado di esserne un valido genitore – tant’è vero che il Codice Civile italiano (Articolo 330, primo comma) sancisce, anche a proposito dei genitori biologici, che:
Il giudice può pronunziare la decadenza della potestà quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.
Come vedete, rav Bernheim non ha obiezioni a che un giudice attribuisca la potestà genitoriale a due donne che vivono una relazione lesbica (anzi, incoraggia tutte le coppie omosessuali ed omogenitoriali a ricorrere al giudice per questo!) – ma allora smentisce implicitamente tutto quello che ha scritto prima sull’inidoneità delle coppie omosessuali alla genitorialità. Il problema vero per lui non è che un bambino sia allevato da una coppia lesbica o gay – il problema è che questa coppia vuole sposarsi.

Mi pare inutile a questo punto affrontare il modo in cui cerca di negare alle coppie omosessuali il diritto ad adottare: se a lui va bene che una coppia lesbica o gay allevi il figlio di uno di loro, perché non può allevare il figlio di un terzo?

E perché una coppia omosessuale non può ricorrere alla procreazione medicalmente assistita, come le coppie eterosessuali, se è idonea come loro ad esercitare la potestà genitoriale e tutto il ruolo genitoriale?

La seconda parte dell’articolo è un attacco alle teorie di genere ed alle teorie queer; risponderò in un'altra occasione, anche se invito già i lettori a fare attenzione a come rav Bernheim riassume queste teorie.

Raffaele Ladu
Dottore in Psicologia Generale e Sperimentale

Aggiornamento dell'11 Febbraio 2013 - 29 Tevet 5763

Inserisco qui quattro link, [5e] ed [8a, 8b, 8c].

[5e] è un articolo del filosofo ebreo (ma non so quanto osservante) Bernard-Henry Lévy, che sulle colonne del Corriere della Sera ribatte con molta più energia di Tobia Zevi (autore di [5b]) all'omofobia di molti suoi correligionari.

I link [8a, 8b, 8c] illustrano una sentenza della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione italiana, emessa oggi, secondo cui un bambino può crescere bene anche in una famiglia omosessuale, e che chi vuole contestare l'affidamento del bimbo ad una coppia omosessuale deve dimostrare l'effettiva dannosità di quella famiglia, e non pensare che i giudici siano d'accordo che le famiglie omosessuali siano dannose per sé.

Questa sentenza parifica le famiglie omosessuali con quelle eterosessuali, e concorda con la sentenza della Corte di Cassazione francese citata ed approvata da rav Bernheim; penso perciò che il nostro rabbino approverà anche questa sentenza, ma ciò evidenzia ulteriormente la contraddizione tra le sue argomentazioni di sapore metafisico sull'inidoneità delle coppie omosessuali all'essere genitrici, la constatazione che in realtà sono pari a quelle etero, ed il fatto che lui si dichiara contento di sentenze siffatte.

L'articolo di rav Bernheim è stato applaudito dagli omofobi di un intero continente, ma in realtà nuoce gravemente alla loro causa. Todah rabah, rabi = Molte grazie, mio maestro!

Aggiornamento dell'13 Aprile 2013 - 3 Iyyar 5763

L'articolo [9a] commenta lo scandalo che ha costretto alle dimissioni rav Gilles Bernheim, in quanto si è vantato di un titolo accademico mai conseguito, ed ha plagiato opere altrui anche nel redigere lo scritto a cui ho risposto, riportando una dichiarazione con cui Padre Franco Lombardi, portavoce della Santa Sede,  ribadisce l'apprezzamento del Vaticano per le opinioni dell'ormai ex Gran Rabbino di Francia.

Nel farlo, Padre Lombardi dimentica una cosa fondamentale: le interpretazioni omofobe della Bibbia da parte della Chiesa cattolica sono sempre più contestate, con ottimi argomenti non solo sistematici, ma anche filologici; pertanto, trovare un Gran Rabbino che era pronto a confermarle era per la Santa Sede la conferma della propria inerranza.

Ma se le idee espresse da rav Bernheim erano il plagio di ciò che aveva scritto un prete cattolico, allora non sono più la conferma da fonte indipendente della correttezza dell'interpretazione cattolica delle Scritture – anzi, sono la conferma da fonte indipendente di quello che si intende leggendo il libro [9b], ovvero che l'omofobia, intesa come avversione non soltanto agli atti omosessuali, ma anche alle persone omosessuali, è presente nel mondo ebraico a causa di quella che negli studi postcoloniali viene chimata “mimcry = imitazione servile” del cristianesimo – tanto è vero che nel Talmud si narrano diversi esempi di quello che ai nostri occhi pare “omoerotismo”, ma non ha mai turbato alcun “talmid chacham = allievo di un saggio”, ovvero studente di scuola rabbinica.

Ho detto che ho sbagliato a prendere sul serio rav Bernheim. Col senno di poi, diverse cose avrebbero dovuto insospettirmi:
  1. Raramente un papa regnante si sogna di citare un rabbino vivente – non per partito preso, ma perché le idee di vescovi e rabbini sono scarsamente compatibili; se le idee di un rabbino vengono ritenute degne di menzione da un papa, uno deve chiedersi da dove le ha prese.
  2. Nella mia risposta a rav Bernheim avevo avuto gioco facile a citare la “maternità di Mosé”, ovvero l'interpretazione che Emmanuel Lévinas aveva dato di Numeri 11:12; ed avrei potuto citare anche Martin Buber, altro grande filosofo ebreo del 20° Secolo, che diceva che anche un mucchio di pietre possono essere l'Altro da incontrare, il Tu con cui l'Io deve entrare in relazione; se aggiungiamo che tra i più noti esponenti delle teorie queer ci sono delle ebree come Judith Butler ed Eve Kosofsky Sedgwick, avrei dovuto chiedermi come mai un rabbino si esponeva tanto a dare un'interpretazione metafisica di Genesi 1:27 quando la filosofia ebraica contemporanea ha bellamente ignorato o smentito quel passo biblico.
  3. Non sono un esperto della Bibbia o della letteratura rabbinica, ma avrei dovuto rendermi conto che l'interpretazione che rav Bernheim dava della differenza sessuale, ovvero che il suo scopo era insegnare all'uomo il senso del limite e temperarne la superbia, era più greca che ebraica – ovvero una rilettura del Simposio di Platone, non della Scrittura o del Talmud o del Midrash (ed infatti, cosa strana in uno scritto rabbinico, non ci sono citazioni dalla letteratura rabbinica, ma solo dalla Bibbia).
  4. La contraddizione tra le argomentazioni metafisiche a sostegno dell'essenziale differenza tra il maschio e la femmina, che impedirebbe ad una coppia omogenitoriale di ben educare i figli, e l'approvazione che si trova nel medesimo scritto della possibilità che il partner omosessuale di un genitore biologico possa condividere (grazie alla legge francese) la potestà genitoriale con lui/lei era tanto mostruosa che mi sarei dovuto rendere conto che si trattava di brani scritti da persone diverse e mal coordinati.
Sinceramente, mi sento molto deluso. Mi sento come uno scacchista convinto di aver sconfitto un Grande Maestro e che invece ha sconfitto soltanto un principiante che non sa distinguere l'arrocco lungo da quello corto – e perciò da questa vittoria ha guadagnato così pochi punti ELO che pensa che non valesse la pena accettare la sfida.

Bibliografia