Les condamnés




"Condannati", recita il titolo del volume, da uno Stato che considera illegale l'espressione della loro sessualità, ed è questa circostanza ad accomunarli, ma ancora di più, come si evince dalle loro testimonianze, condannati dalla loro famiglia, dai loro amici, dai loro datori di lavoro e, più in generale, messi ai margini della società. Sono uomini provenienti da uno dei (purtroppo) ancora numerosi Paesi che criminalizzano l'omosessualità, e Philippe Castetbon ha avuto modo di entrare in contatto con loro tramite siti di incontri per gay. Ad ognuno di loro è stato chiesto di inviare i propri dati (l'iniziale del nome, l'età e la città di residenza), una testimonianza personale, una fotografia del proprio viso (variamente, e talvolta fantasiosamente, occultato) e una traduzione in lingua locale della frase "Dans mon pays, l'homosexualité est un crime". A tutto questo Castetbon ha poi aggiunto un'indicazione delle leggi in vigore nei rispettivi Stati in materia di omosessualità (osserviamo tuttavia che, nel caso dell'India, i tempi di realizzazione del volume non hanno evidentemente permesso di tenere conto della depenalizzazione avvenuta nel luglio 2009).
Ecco come nasce questo libro che, senza ambire, per ammissione stessa dell'autore, alla dignità di studio sociologico, ci permette di entrare nelle pieghe di esistenze quotidiane difficili, dove la discrezione e la dissimulazione – il silenzio – si pongono come condizione necessaria per la sopravvivenza. Quale comune denominatore di queste testimonianze, tutte rigorosamente alla prima persona (al singolare del singolo individuo omosessuale e/o al plurale dell'intera comunità dei gay del suo Paese), emerge infatti la considerazione che solo nascondendosi, solo conducendo una doppia vita è possibile esprimere la propria sessualità, approfittando magari degli spazi paradossalmente resi disponibili dalla rigida segregazione sessuale vigente in certe società islamiche. Così, in Bahrein (p. 18) è possibile per un uomo, purché non effeminato, portare avanti una relazione con un altro uomo senza destare troppi sospetti, e in Arabia Saudita (p. 14) camminare mano nella mano con il proprio compagno come è consuetudine fare, in quel Paese, anche tra amici. Porsi come apertamente omosessuali è invece fuori discussione, pena l'ostracismo: "la vita quotidiana di un gay non dichiarato è quasi normale", afferma T. del Burundi (p. 28), "quando però l'omosessualità diventa ufficiale, come nel mio caso, l'esistenza si trasforma in un inferno totale". La stessa regola vale in Sri Lanka, come conferma A. (p. 98): "finché resti zitto in merito alla tua omosessualità, non avrai troppi problemi nel mio Paese, ma non appena aprirai bocca e ne parlerai, tutti si prenderanno gioco di te e ti escluderanno dalla società".
Leggendo le loro testimonianze, sempre sofferte e commuoventi, sembra proprio che a spaventare maggiormente questi uomini siano le violenze e le pratiche di esclusione messe in atto dalla società nel suo insieme, più ancora che le eventuali punizioni inflitte dallo Stato. D'altronde, un Paese come l'Iraq, ufficialmente sprovvisto di una legislazione antiomosessuale specifica ma dove operano indisturbate, anzi addirittura sostenute dai capi spirituali, apposite squadre della morte, risulta più pericoloso di uno come la Mauritania, dove risulta in vigore una legge, di fatto non applicata, che punisce gli "atti contro natura" con la lapidazione pubblica dei colpevoli. Molto simile è il caso dello Yemen: "la morte è la pena prevista per le relazioni omosessuali", testimonia J. (p. 106) ma "siccome sono necessari almeno quattro testimoni del fatto, questa legge non è mai applicata". Laddove non vige la Sharia, vigono leggi importate dagli Europei durante il periodo coloniale e opportunamente conservate per volontà, tra gli altri, delle autorità religiose, come in Guyana o in Pakistan. In Papuasia-Nuova Guinea, ci dice L. (p. 90), "era normale per gli uomini avere relazioni omosessuali. Ma con l'arrivo del cristianesimo, ci dicono ora che è un peccato […] Prima che i bianchi portassero la loro cultura qui, la nozione di sesso illegale non esisteva".
Come ci si potrebbe aspettare, l'influenza della religione e degli esponenti delle varie confessioni religiosi, è frequentemente evocata nelle parole di questi condamnés. Stiamo imparando a conoscere in questi mesi il triste caso dell'Uganda, dove sta sempre più prendendo piede un'omofobia incoraggiata da capi religiosi locali (e americani) intenti a diffondere tra la gente l'idea che "i gay non sono né amati né accettati da Dio" (p. 84). Conosciamo anche meglio la situazione dell'Iran: "sono un iraniano gay", afferma A. di Teheran (p. 52), "chiuso in una prigione pericolosa, formata da quattro muri disgustosi: la legge, la cultura, la famiglia e la RELIGIONE [sic]".
Les condamnés ci permette quindi di penetrare nella vita quotidiana di omosessuali che si trovano malauguratamente a vivere in Paesi in cui, agli ostacoli ordinari che qualunque omosessuale nel mondo trova sul proprio cammino, se ne sommano altri dovuti ad una legislazione iniqua e ad un contesto culturale poco propenso (nel migliore dei casi) ad accogliere le diversità – questa diversità in particolare. Non solo, Les condamnés ci fa anche vedere i volti di questi uomini, che, in contesti sociali dove la cosiddetta scena gay è pressoché inesistente (fanno eccezione Paesi come il Mozambico o il Kenya, dove "esiste una grande visibilità dei gay", p. 58) possono mostrarsi per quello che sono, ancorché col viso coperto, solo in rete, e anche in questo caso non senza la paura di trovarsi a dialogare non con Philippe Castetbon ma con un poliziotto (p. 7). Per molti di loro, vale a dire per quelli che hanno effettivamente la possibilità di accedervi, Internet resta l'unica finestra di libertà, ed è proprio grazie a Internet che noi, dalla libera e laica Europa, possiamo oggi entrare in contatto con loro e imparare a conoscere un po' meglio le loro vite.

Daniele Speziari

Critica di Indigo Blue / Ebine Yamaji


Al Bookout di Pisa ho comprato, tra i tanti libri:

e l'ho considerato la più bella storia d'amore tra donne che ho letto.

In realtà si tratta di un triangolo tra Rutsu Nakagawa, una scrittrice che esprime le sue velate pulsioni lesbiche nelle sue narrazioni, Riuji, il suo editor ed amante, e Tamaki Yano, redattrice della rivista "Nerve" che, da fan della scrittrice ne diventa infine la compagna.

La storia si svolge su due piani - letterario ed esistenziale, in quanto l'evolversi della personalità e della scrittura di Rutsu procedono di pari passo; il racconto inizia con Tamaki che dice a Rutsu di aver capito che il protagonista di un suo racconto, "Una manciata di attimi", un illustratore che fa l'amore con una donna con le dita intrise del colore blu indaco (quello che dà il nome al fumetto) e le macchia piacevolmente il seno che accarezza, potrebbe essere una donna: viene infatti identificato come "Y", e non c'è nessuna indicazione grammaticale che ne chiarisca il genere.

Anche Riuji sospetta che ci sia una tematica lesbica latente nelle opere di Rutsu, e critica molto favorevolmente il romanzo che sta ora scrivendo Rutsu - la storia di una donna sposata che si scopre innamorata di una donna, ed è dibattuta tra questo nuovo amore e la fedeltà coniugale. Non sa che la storia sta parlando di loro due!

Le cose in realtà non sono così semplici: Rutsu, quando le viene chiesto se "Y", il protagonista di quel racconto, è davvero una donna, risponde che l'ambiguità è voluta, perché il personaggio stesso non sa come definirsi.

Nel fumetto Rutsu dice a Tamaki che è stato un segno del destino che quel personaggio si chiamasse "Y", e lei avesse per cognome "Yano"; Tamaki risponde che sono cose che dicono tutte le donne innamorate, ma c'è una scena che fa pensare
che Tamaki sia davvero l'incarnazione dell'ambigu* "Y".

Tamaki infatti dice una volta che vorrebbe avere un pene per penetrare Rutsu, e "sentirla meglio"; ed un'altra volta dice che preferisce fare il "cunnilingus" che riceverlo, ma che quella volta Rutsu glielo aveva fatto meravigliosamente.

Ora, chiunque può fare un "cunnilingus", ma per riceverlo occorre essere venute a patti con la propria femminilità. Non era soltanto Rutsu che faceva fatica ad accettare di essere lesbica; anche Tamaki faceva fatica ad accettare di essere donna - e le due amanti sono maturate insieme.

Ma questa maturazione ha un limite: nel romanzo che Rutsu sta scrivendo la protagonista sacrifica l'amore con la sua donna alla famiglia "tradizionale"; nella vita Rutsu trova il coraggio di fare "coming out" con Riuji e lasciarlo, sia come amante, che come editor.

Però ... in questa storia le femmine sono subordinate ai maschi: la scrittrice femmina Rutsu sottopone le sue opere al giudizio dell'editor maschio Riuji, e le volte in cui ci vuole qualcuno che offra una diversa prospettiva (gli anglosassoni dicono: "to think out of the box"), è Den, un altro suo amico maschio, sposato e padre di famiglia, ad offrirgliela.

La subordinazione più evidente sta nel fatto che Rutsu (lo dice lei stessa) non va a letto con Riuji per amore, ma perché lui le serve; la situazione è peggiorata dal fatto che Riuji, convinto di farle un favore, fa in modo di diventare il suo editor.

Questo però lo pone in una posizione di potere nei confronti di Rutsu, ed impone all'autrice Ebine Yamaji di modulare con attenzione il rapporto tra Riuji e Rutsu, per risparmiare a Riuji la nomea di stupratore o babbeo, ed a Rutsu la nomea di vittima o di meretrice.

A mio avviso ci riesce abbastanza bene: Rutsu non fa l'amore con Riuji per amore o desiderio, ma lo fa comunque per scelta; e Riuji si rende conto che Rutsu non risponde come tutte le altre donne che ha conosciuto biblicamente, ma non la costringe a nulla.

Però Riuji deve accollarsi comunque una buona dose di colpa: non avrebbe dovuto mettersi in una posizione di potere nei confronti di Rutsu (la deontologia di molte professioni vieta al professionista di avere rapporti sessuali con il proprio cliente, proprio per lo squilibrio di potere tra i due), ed i dubbi sulle reali sensazioni (e motivazioni) di Rutsu avrebbero dovuto fermarlo.

Temo che non sia raro il caso di una donna lesbica che ha rapporti di convenienza con un uomo (il motivo più semplice e nobile è quello di essere fecondata - tema che si ritrova in quest'altra graphic novel della medesima autrice:


che vale la pena leggere), e questo avrebbe dovuto rendere Tamaki comprensiva alla scoperta che Rutsu la tradiva con Riuji; ma lei invece si arrabbia moltissimo.

Penso che questa scenata sia servita non solo per dare alle lettrici una prova dell'amore che lega Rutsu e Tamaki, ma anche per discolpare Riuji: la scenata si giustifica soltanto se c'era veramente del sentimento tra Rutsu e Riuji, anche se in altre circostanze non li avrebbe portati a letto.

La storia finisce bene, ma c'è una cosa che vorrei aggiungere. Molti maschi etero hanno la fantasia di amare una donna impegnata in una relazione lesbica, e curiosamente il fumetto di Yamaji viene incontro alle loro fantasie; inoltre, la subordinazione delle donne Rutsu e Tamaki ai maschietti Riuji e Den li rassicura che questi amori non sovvertiranno i rapporti tra i sessi.

In "Love My Life" le cose vanno meglio: Eri sfugge al destino impostole dalla famiglia, ed anziché diventare una casalinga, od un avvocato come suo padre e suo fratello [non era la sua vera vocazione, ma soltanto una "protesta virile", cioè un tentativo di dimostrare che valeva non meno di loro], diventa una scrittrice di successo - anche la romanziera vive delle sue parole, come l'avvocato.

Curiosa è una cosa: Rutsu e Tamaki hanno dei cognomi (rispettivamente Nakagawa ed Yano), mentre Riuji e Den non li hanno. Mi sono chiesto perché, e credo che questo accada perché rappresentano l'"Animus" di Rutsu Nakagawa - come fossero le incarnazioni del "maschio eterno", e chi è eterno non ha genealogia né famiglia.

Il cognome "Yano" comincia con "Y" come quello dell'autrice, "Yamaji", il che fa pensare che Ebine Yamaji abbia fatto una storia quasi autobiografica, quali quelle che scrive Rutsu Nakagawa.

Tornando all'"Animus", in "Love My Life" è rappresentato dal padre della protagonista, un gay che ha sposato una lesbica perché entrambi desideravano un figlio, ed anche gli altri maschi della storia sono gay - penso che la storia abbia uno svolgimento migliore perché l'Animus qui non è eterosessista, e non condiziona altrettanto negativamente la protagonista.


Raffaele Ladu

Shonen ai

Una delegazione del Centro Milk di Verona si è recata domenica 14.11.2010 a Pisa per partecipare alla prima edizione del Bookout - Fiera del Libro LGBT.


L'obbiettivo principale era assistere al dibattito tra Paola Guazzo ed il rabbino capo di Pisa Luciano Meir Caro su "Ebraismo ed omosessualità"; purtroppo il rabbino è stato urgentemente convocato a Roma, non ha potuto trovare un sostituto , ed il dibattito si è ridotto alla presentazione del libro


R/esistenze lesbiche nell'Europa nazifascista / a cura di Paola Guazzo, Ines Rieder, Vincenza Scuderi - [Verona] : Ombre corte, 2010 - 190 p. ; 21 cm. - Documenta ; 11 - ISBN 9788895366647


già recensito qui.

Si è invece svolta regolarmente la presentazione del libro:


Una cosa interessante che ha detto Massimiliano De Giovanni, sceneggiatore di molti fumetti LGBT pubblicati dalla Kappa Edizioni, è che in Giappone esiste una copiosa produzione di manga del tipo Shonen ai, in cui si narrano storie d'amore tra uomini gay.


Il libro spiega bene la loro evoluzione storica, ma quello che val la pena di riportare di quello che ha detto De Giovanni è che questi fumetti sono opera di donne etero, e sono destinati a donne etero, presso le quali hanno un enorme successo.


De Giovanni rinviene in questi fumetti non tematiche gay, e neppure lesbiche, ma tematiche tipiche di donne impegnate in relazioni eterosessuali, ed ha aggiunto che in Giappone il ruolo femminile è molto subalterno (più che in Italia, a quanto pare), e che le donne giapponesi che scrivono e leggono questi fumetti vorrebbero probabilmente un partner maschile etero simile ai gay di questi fumetti: dolce, sensibile, raffinato ...


De Giovanni ha concluso dicendo che queste donne giapponesi sono molto più "Fag Hags = Frociarole" della protagonista di questo fumetto che lui ha sceneggiato:


e questo mi ha fatto tornare in mente quello che si era detto delle "Frociarole" a margine del convegno sull'"eterofobia" del 03.11.2010.


Erano stati descritti infatti due casi di "frociarole", che mi avevano fatto pensare che le "frociarole" fossero donne convinte che un rapporto uomo-donna in cui giochi un ruolo il desiderio sia necessariamente di subordinazione - il fatto che una delle due donne descritte fosse la dominatrice dei suoi partner capovolgeva la regola senza sovvertirla.


Nel rapporto donna etero-uomo gay l'uomo non desidera la donna, la donna non rinviene perciò in lui voglia di dominio, e questo rende il rapporto più sereno - non è colpito dalla maledizione espressa da questo versetto:


"Il tuo desiderio sarà verso il tuo uomo, ma egli ti dominerà" (Genesi 3:16).


Avevo concluso che le "frociarole" sono un sottoprodotto della meschinità dei rapporti uomo-donna nella società attuale, ed ho provato a sottoporre quest'idea a Massimiliano De Giovanni, che mi ha dato ragione, in quanto in un paese in cui i rapporti uomo-donna sono molto peggiori che in Italia (lo credevo impossibile, ma a quanto pare aveva ragione Napoleone a volere che la parola "impossibile" fosse cancellata dal vocabolario), il fenomeno è molto più radicato.


Non mancano i maschi etero autori di fantasie erotiche interpretate da donne lesbiche, fantasie rivolte a se stessi o ad altri maschi etero; così come non mancano i maschietti che cercano l'amicizia (non l'amore!) di donne lesbiche.


Credo che in entrambi i casi si esprima un profondo senso di inadeguatezza: in una fantasia erotica, il protagonista rappresenta l'autore, ed il fruitore (se diverso dal lettore) è invitato a mettersi nei panni di quel personaggio. Se un maschio si fa rappresentare da una femmina, vuol dire che si ritiene irrimediabilmente inadeguato.


Ed un uomo con una donna lesbica non ci può provare, quindi, nel migliore dei casi, vive con lei un rapporto di tipo madre-figlio. 


Non è il rapporto ideale per una donna (lesbica), ma ci sono quelle disposte ad averlo.

Raffaele Ladu

Pornografia per non-umani





Non so se un articolo del genere potrebbe piacere più ai wiccani od ai cabalisti, ma bisogna riconoscere che Jonathon Keats ha un'incredibile fantasia!


Quello che vuole fare è convincere l'Eterno a dar vita ad ulteriori universi; ma come si può arrapare Dio?


Costruendo un tempio in cui, oltre ai classici strumenti di culto, si vedono sullo schermo di un Mac le immagini delle particelle elementari che si in/scontrano nell'LHC di Ginevra (http://lhc.web.cern.ch/lhc/).


Se non siamo infatti in grado di riprodurre il Big Bang, l'(intra)divino amplesso primordiale che diede origine all'Universo, siamo però in grado di riprodurre gli istanti immediatamente successivi, quando la realtà non si era già divisa in mesoni e barioni, ma era ancora costituita da un "plasma di quark e gluoni" (http://it.wikipedia.org/wiki/Plasma_di_quark_e_gluoni), che conservava l'eco di quella cosmica unione e generazione; secondo Keats, riproporre all'Eterno quei momenti potrebbe convincerLo a concedere il bis od addirittura il sexies …


C'è da dire che Jonathon Keats ci ha già provato con la pornografia per non-umani – ha prodotto dei filmati di piante riprese al momento dell'impollinazione, e con quelli cerca di convincere le piante di New York a darci dentro (si vede che il sindaco Bloomberg non cura abbastanza il verde pubblico)!


Spero solo che non ci provi con la pornografia per gli autoveicoli:– a giudicare dalle statistiche, le auto vanno a sbattere già abbastanza spesso e volentieri da sole!


Per quanto riguarda i wiccani ed i cabalisti, i wiccani non li conosco, ma so che per i cabalisti l'Eterno ha una vita sessuale attraverso le vicende delle sue 10 "Sefirot"; il problema è che, rappresentando esse personaggi della medesima famiglia, gli incesti non mancano –e non ho notizia di cabalisti che abbiano esplorato la possibilità di rapporti lesbici e gay tra le sefirot del medesimo sesso!


In ogni caso, complimenti a chi, come Jonathon Keats, ha dimostrato di avere in queste cose più immaginazione di me!

Raffaele Ladu

Esiste l'eterofobia? (Forum di mercoledì 3 novembre 2010)

All'indomani delle esternazioni del Presidente del Consiglio italiano, che, come noto, ha affermato la superiorità del proprio discutibile stile di vita sull'omosessualità (maschile), si è tenuto presso il Centro Milk un dibattito, in programma da tempo ma singolarmente adatto alla giornata, su un concetto che raramente viene evocato : quello di eterofobia. Se interpretiamo le dinamiche della società alla luce del principio della fisica secondo il quale ad ogni azione corrisponde un'azione uguale e contraria, non faticheremo infatti a ravvisare, per esempio, tra alcuni neri, sentimenti analoghi a quelli provati dagli – ahinoi – numerosi xenofobi bianchi (nel nostro caso, "padani"), e, tra alcuni omosessuali, qualcosa di simile all'omofobia. Per comprendere meglio la natura di quest'ultima, abbiamo quindi ritenuto utile interrogarci sul fenomeno speculare, anche se indubbiamente assai meno pericoloso, di eterofobia. La questione non si risolve però qui, poiché, se del termine "omofobia" esiste una definizione più o meno condivisa, lo stesso non si può dire di "eterofobia", del quale abbiamo individuato almeno quattro possibili accezioni.

La prima concerne l'eterofobia come "paura del sesso opposto", una sorta di rifiuto risultante da un trauma, se non addirittura da una violenza, e in quanto tale potenzialmente più diffuso tra le donne che non tra gli uomini, e in particolare tra certe lesbiche, come hanno potuto confermare Rita e Luigia. Eterofobo è tuttavia – e passiamo qui alla seconda accezione del termine – anche il gay "terapeuta riparatore" che esclude a priori la possibilità che ad un uomo possano piacere le donne, negando così, implicitamente, l'esistenza stessa degli eterosessuali e relegandoli d'emblée, e in blocco, al rango di "omosessuali repressi". Si può leggere un ritratto (o piuttosto una caricatura, secondo Raffaele) di questo "tipo" umano, di cui i partecipanti al nostro forum non hanno escluso l'esistenza, nell' l'articolo seguente:http://dragor.blog.lastampa.it/journal_intime/2008/02/eterofobia-1.html.

Una ulteriore accezione di "eterofobia", la terza della nostra scaletta, può essere desunta dalle opinioni di medici psicologi vicini agli ambienti dell'integralismo cattolico, secondo i quali il concetto di "omofobia", oltre a non rinviare ad una patologia e tanto meno ad una "fobia" in senso proprio, viene usato come feticcio, e in malafede, dai militanti omosessuali per "colpevolizzare gli eterosessuali" – così il dott. Anatrella, autore della voce Omosessualità e omofobia, contenuta in Lexicon, Città del vaticano, LEV, 2003, di cui è possibile leggere degli stralci su http://www.siciliacristiana.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=471&Itemid=174. Per quanto il termine non sia esplicitamente utilizzato in queste righe, è evidente la volontà di affermare l'esistenza, presso certi omosessuali "militanti" (quelli cioè che della propria condizione fanno un vanto) di una vera e propria eterofobia, intesa come tentativo di stigmatizzare i portatori di una sessualità "corretta".

Per concludere, abbiamo poi proposto di interpretare l'"eterofobia" come una forma di risentimento provata dall'omosessuale che si trovasse al cospetto di una coppia uomo/donna intenta a scambiarsi effusioni in pubblico, a compiere cioè un atto che per lui (o per lei) comporterebbe uno sforzo di gran lunga maggiore, se non dei rischi per la propria incolumità personale. È stata precisamente quest'ultima accezione a suscitare, più di tutte, l'interesse dei partecipanti. Sorvolando sulla componente dell'invidia, che non conosce identità di genere né orientamento sessuale, Zeno si è mostrato propenso a credere che dietro questa forma di eterofobia si celi, in realtà, dell'omofobia interiorizzata da parte di chi non si è davvero accettato fino in fondo e, pertanto, prova disagio di fronte alle manifestazioni di un'affettività "etero" (cioè "normale") che, suo malgrado, gli è irrimediabilmente preclusa. Fabrizio ha invece puntato il dito sulla tendenza di molti omosessuali, e segnatamente di molte coppie, ad autolimitarsi nell'espressione dei propri sentimenti : l'eterofobia, nell'accezione di cui ci stiamo occupando ora, non sarebbe altro che il riflesso di un timore radicato a mostrarsi per come si è alla luce del sole.

A fronte di una tale pluralità di significati, dovuta al fatto che il termine "eterofobia" non è ancora entrato nell'uso comune, riteniamo di poter adottare la definizione che Raffaele ha provato a dare del fenomeno, come sentimento proprio "di chi concepisce una società in cui gli etero o non sono ammessi (come le lesbiche ed i gay per l'omofobo) o sono relegati in fondo alla scala sociale (come le donne per il misogino". Con l'auspicio che le parole di Silvio Berlusconi non contribuiscano ad acuire tali sentimenti.


Daniele