La performatività del genere spiegata ai mici


C’è una dottoranda di nome Hannah McCann, cofondatrice del Judith Butler Fan Club, che ama sia i gatti che le teorie queer (il motto del blog è “Tutto quello che avreste voluto sapere sul genere ma avevate troppa fifa di chiedere”), ed ha realizzato il “fotoromanzo” che ho linkato sopra e riprodotto sotto, in cui Judith Butler spiega la “performatività” del genere dialogando con dei mici.

Le parole della Butler sono montaggi di citazioni del suo libro Gender Trouble (pubblicato in italiano con il titolo Scambi di genere), ed infatti sul petto della Butler vedete scritti i numeri di pagina da cui ogni citazione è tratta; le parole dei mici sono invece tutte farina del sacco dell’autrice del blog.

Io non sono bravo ad usare Photoshop, e quindi mi limito a tradurre i dialoghi (in calce al “fotoromanzo”) indicando a quale vignetta si riferiscono (l’autrice mi ha facilitato il lavoro numerando ogni vignetta); poiché sono io a tradurre, la mia traduzione può non corrispondere a quella dell’edizione italiana. Spero che questo non vi faccia danno.

Buona lettura e ciao, RL

Traduzione

  1. Leggere Judith Butler mi fa male al cervello. Che diavolo significa “performatività”?
  2. T’aiuto. Fammi partire dall’inizio.
  3. Allora, non c’è alcuna “’verità’ intrinseca” nell’identità di genere, perché il sesso “è già genere, sempre”.
  4. Già "all’inizio", non ti capisco. Perché non c’è un’essenza intrinseca nell’identità di genere?
  5. Perché il genere è il risultato della ripetizione di “stili della carne” che “si coagulano con il tempo”. Questo processo ci fa credere che ci sia una verità intrinseca naturale. “La costruzione ci forza a credere che essa sia necessaria e naturale”.
  6. Il genere si coagula.
  7. Fammi capire: se non c’è un’essenza intrinseca del genere, com’è che il sesso è già genere? Non abbiamo parti femminili e parti maschili, e questo è un fatto scientifico?
  8. Questa non è altro che la “matrice eterosessuale”.
  9. (il gatto tace, e l’immagine palesa quello che pensa)
  10. Beh, non è proprio così.
  11. Sto parlando di una “griglia di intelligibilità culturale” in cui sesso, genere e desiderio sono mantenuti in una dicotomia eterosessuale (ovvero, una struttura coerente in cui sesso -> genere -> desiderio dell’opposto).
  12. Come la griglia del film “Tron”?
  13. Beh … in questa griglia, la “coerenza” e la “continuità” di sesso, genere e desiderio sono le “norme d’intelligibilità”.
  14. E dacchè questa struttura si ripete, noi finiamo con il vederla come naturale. Ti ricordi il coagularsi? Questa è la performatività del genere: “anticipazione”, “ripetizione” e “rituale”. Il genere è un fare, non un essere.
  15. Ma allora, con il genere io devo solo ripetere, ripetere e ripetere con la monotonia della lavandaia?
  16. Attento! Guarda, bello mio, dove hai messo l’io: non c’è nessun autore dietro l’azione.
  17. Cosa?
  18. Il genere è performativo in quanto è produttivo. L’identità è un effetto (un prodotto) anziché una causa. “Non è né fatalmente determinata né del tutto artificiale ed arbitraria”. Non è teatrale.
  19. Ma, se non intendi la performatività come teatrale, perché usi l’esempio del drag nel capitolo 3?
  20. Ho semplicemente usato il drag come un esempio di parodia dell’identità di genere, una parodia “proprio della nozione di originale”. Non la prescrivo come una tattica sovversiva.
  21. Non so che dire, JB. Potremo mai rovesciare l’egemonia che descrivi?
  22. Non la possiamo rovesciare, ma quello che ho descritto è intrinsecamente aperto alla trasformazione.
  23. “La ‘realtà’ del genere … può essere fatta in modo diverso, e, davvero, meno violento”.
  24. “Continuo a sperare in una coalizione di minoranze sessuali che trascendano le semplici categorie dell’identità … che contrastino e dissipino la violenza imposta da restrittive norme corporali”.
  25. Grandioso!

La performatività del genere

Circolano molte idee sbagliate sulle “teorie queer”, sbrigativamente ribattezzate “ideologia del genere”, alle quali si attribuisce la credenza secondo cui il genere è una cosa puramente arbitraria.

Tenendo in mente questo, fa particolarmente male leggere articoli come questo:
  • Judith Butler, “Critically Queer”, in GLQ: A Journal of Lesbian and Gay Studies, Volume 1, no. 1. Copyright 1993, Duke University Press 
Di cui traduco un brano così come ripubblicato nel libro:
Alle pagine 22-24 (i corsivi sono dell'autrice).

La performatività del genere ed il drag

Come si legano (se si legano) le nozioni di resignificazione discorsiva e quella di parodia od impersonazione del genere? Se il genere è un effetto mimetico, è perciò una scelta od un artificio di cui ci si può disfare? Se non è così, come è emersa questa lettura di Gender Trouble = Scambi di genere? Ci sono almeno due ragioni per quest’incomprensione, una delle quali è opera mia dacché ho citato il drag come un esempio di performatività (preso allora, da alcuni, come esemplare, cioè l’esempio della performatività), ed un’altra che ha a che fare con le esigenze politiche di un crescente movimento queer in cui la pubblicizzazione della capacità di agire in modo teatrale è diventata assai centrale [6].
L’incomprensione della performatività del genere è questa: che il genere è una scelta, o che il genere è un ruolo, o che il genere è una costruzione che uno indossa, così come indossa gli abiti la mattina, che c’è un “uno” che viene prima del genere, un uno che va all’armadio del genere e decide consapevolmente di che genere sarà oggi. Questa è una descrizione volontarista del genere che presume un soggetto, intatto, prima che gli venga attribuito un genere. Il senso di performatività del genere che intendevo era ben altra cosa.

Il genere è performativo nella misura in cui è l’effetto di un regime di regolazione delle differenze di genere in cui i generi sono divisi e gerarchizzati sotto costrizione. Le costrizioni sociali, i tabù, le proibizioni, le minacce di punizione operano nella ripetizione ritualizzata delle norme, e questa ripetizione costituisce la scena temporalizzata della costruzione e della destabilizzazione del genere. Non c’è un soggetto che precede od attua questa ripetizione delle norme. Nella misura in cui questa ripetizione crea un effetto di uniformità del genere, un effetto stabile di mascolinità o femminilità, essa egualmente produce e destabilizza la nozione del soggetto, poiché il soggetto diviene intelligibile solo attraverso la matrice del genere. In verità, uno potrebbe interpretare la ripetizione proprio come ciò che confuta il concetto di padronanza volontaristica designata dal soggetto nella lingua [7].

Non esiste un soggetto che sia “libero” di star fuori da queste norme, o di negoziarle standone fuori; al contrario, il soggetto viene retroattivamente prodotto da queste norme nella loro ripetizione, proprio come loro effetto. Quella che potremmo chiamare “capacità di agire”, “libertà” o “possibilità” è sempre una prerogativa politica specifica che è prodotta dai varchi lasciati aperti dalle norme regolatrici, nel lavoro di interpellazione di tali norme, nel processo della loro autoripetizione. Libertà, possibilità, capacità di agire non hanno uno status astratto o presociale, ma sono sempre negoziate all’interno di una matrice di potere.

La performatività del genere non è una questione di scegliere di che genere uno sarà oggi. La performatività è una questione di reiterare o ripetere le norme che costituiscono una persona: non è la fabbricazione radicale di un sé dotato di genere. È una ripetizione obbligatoria di norme a priori e soggettivanti, di cui non ci si può sbarazzare a volontà, ma che operano, animano e costringono il soggetto dotato di genere, e che sono anche le risorse da cui si devono forgiare resistenza, sovversione e piazzamento. La pratica con cui si verifica il genere, l’incarnazione delle norme, è una pratica obbligatoria, una produzione forzata, ma non per questo completamente determinante. Nella misura in cui il genere è un compito, è un compito che non è mai adempiuto completamente secondo le aspettative, un compito il cui destinatario non abita mai alla perfezione l’ideale a cui ella od egli è obbligata/o ad approssimarsi.

Quest’incapacità di approssimarsi alla norma, però, non è la stessa cosa del sovvertire la norma. Non c’è alcuna promessa che la sovversione seguirà dalla reiterazione delle norme costituenti; non c’è garanzia che esporre lo stato naturalizzato dell’eterosessualità porterà alla sua sovversione. L’eterosessualità può aumentare la sua egemonia attraverso la sua denaturalizzazione, come quando vediamo delle parodie denaturalizzanti che reidealizzano le norme eterosessuali senza metterle in discussione. Ma talvolta proprio il termine che dovrebbe annichilirci diventa il luogo della resistenza, la possibilità di un significato politico e sociale abilitante: penso che lo abbiamo visto assai chiaramente nella stupefacente trasvalutazione che ha subìto il termine “queer”: Questa per me è l’attuazione di una proibizione e di una degradazione contro se stesse, la germinazione di un diverso ordine dei valori, di un’affermazione politica da ed attraverso proprio quel termine che in un precedente uso aveva per obiettivo finale lo sradicamento proprio di quest’affermazione.

Può sembrare comunque che si sia una differenza tra l’incarnare od eseguire le norme di genere e l’uso performativo del linguaggio. Sono questi due diversi significati di “performatività”, oppure convergono come modi di citazione in cui il carattere obbligatorio di alcuni imperativi sociali viene assoggettato ad una deregolamentazione più promettente? Le norme di genere operano richiedendo di incarnare certi ideali di femminilità e mascolinità, i quali sono praticamente sempre legati all’idealizzazione del legame eterosessuale. In questo senso, il performativo iniziale: “È una bambina!” anticipa l’arrivo finale della proclamazione: “Vi dichiaro marito e moglie”. Da qui viene anche la particolare squisitezza della vignetta in cui l’infante viene per la prima volta interpellata dicendo di lei: “È una lesbica!”. Anziché essere una barzelletta essenzialista, l’appropriazione queer del performativo scimmiotta e smaschera sia il potere vincolante della norma eterosessuale, che la sua espropriabilità.

Nella misura che il dare un nome alla “bambina” è transitivo, ovvero, inizia il processo per cui viene forzata una certa “bambinazione” [girling], il termine, o, semmai, il suo potere simbolico, governa la formazione di una femminilità attuata corporalmente, che non si approssima mai completamente alla norma. Questa è però una “bambina”, che è obbligata a “citare” la norma per qualificarsi e restare un soggetto valido [viable]. La femminilità quindi non è il prodotto di una scelta, ma la citazione forzata di una norma, una norma la cui complessa storicità non può essere dissociata da relazioni di disciplina, regolazione, punizione. Infatti, non esiste “uno” che assume una norma di genere. Al contrario, la citazione della norma di genere è necessaria per qualificarsi come “uno”, per diventare valido come “uno”, dove la formazione del soggetto dipende dal previo operare di norme di genere legittimanti.

È nei termini di una norma che impone una certa “citazione” perché si produca un soggetto valido, che bisogna ripensare la nozione di performatività del genere. Ed è precisamente in relazione a tale citazionalità obbligatoria che si deve spiegare anche la teatralità del genere. La teatralità non si deve mescolare con l’esibizione di sé o la creazione di sé. Infatti, nella politica queer, nel vero significato che è “queer”, noi leggiamo una pratica resignificante in cui il potere desanzionante del nome “queer” è rovesciato per sanzionare una contestazione dei termini della legittimazione sessuale. Paradossalmente, ma in modo anche assai promettente, il soggetto che viene “queerizzato” nel discorso pubblico con interpellazioni omofobe di vario genere si appropria proprio di questo termine [“queer”] o lo cita facendone la base discorsiva di un’opposizione. Questo tipo di citazione emergerà come teatrale nella misura in cui scimmiotta ed esagera la convenzione del discorso che inoltre rovescia. Il gesto iperbolico è cruciale per lo smascheramento della “norma” omofobica che non può più controllare i termini delle sue stesse strategie di abiezione.

Contrapporre il teatrale al politico all’interno dell’attuale politica queer, io direi, è impossibile: l’iperbolica esecuzione della morte nei “die-in” [manifestazioni in cui ci si getta a terra come morti, NdR], e l’”esplicitazione” teatrale con cui l’attivismo queer ha sabotato la distinzione ghettizzante [closeting] tra spazi pubblici e privati, hanno fatto proliferare dei siti di politicizzazione e coscienza del pericolo AIDS in tutta la sfera pubblica. Infatti, si potrebbe raccontare un bel ciclo di storie in cui è in gioco la crescente politicizzazione della teatralità per i queer (una cosa ben più produttiva, penso io, dell’insistere che nell’essere queer [queerness] i due sono opposti polari). Questa storia potrebbe includere tradizioni di cross-dressing, balli drag, prostituzione in strada [streetwalking], spettacoli di camioniste con femmine [butch-femme spectacles], lo slittamento tra la “marcia” (New York City) e la “parata” (San Francisco); i die-in di ACT UP, i kiss-in di Queer Nation, le serate in drag per l’AIDS (in cui inserirei anche quelle di Lypinska e di Liza Minelli, in cui ella, alla fine, fa Judy) [8]; la convergenza del lavoro teatrale con l’attivismo teatrale [9]; eseguire eccessiva sessualità lesbica che in modo efficace contrasta la desessualizzazione della lesbica, interruzioni tattiche di forum pubblici da parte di attivisti lesbiche e gay per attrarre l’attenzione e l’indignazione del pubblico all’incapacità del governo di finanziare la ricerca sull’AIDS ed il raggiungere chi ne soffre.

La crescente teatralizzazione dell'ira politica in risposta alla micidiale disattenzione dei politici sulla questione dell'AIDS è allegorizzata nella ricontestualizzazione di "queer", da suo luogo all'interno  di una strategia omofobia di abiezione ed annichilimento ad un'insistente e pubblica cesura di quest'interpellazione dall'effetto della vergogna. Nella misura in cui la vergogna è prodotto dello stigma non solo dell'AIDS, ma anche dell'essere "queer" [queerness], ove quest'ultima cosa è compresa attraverso una causalità omofoba come la "causa" e la "manifestazione" della malattia, l'ira teatrale è parte della resistenza pubblica a quest'interpellazione della vergogna. Mobilitata dalle ferite dell'omofobia, l'ira teatrale reitera queste ferite proprio attraverso un "acting out", uno che non si limita a ripetere od a recitare tali ferite, ma che impiega un'iperbolica manifestazione della morte e delle ferite per travolgere la resistenza epistemica all'AIDS ed alla sfrontatezza della sofferenza, od un'iperbolica manifestazione di baci per infrangere l'epistemica cecità ad un'omosessualità sempre più sfrontata e pubblica.

Note

[6] La teatralità non è per questo completamente intenzionale, ma avrei potuto rendere questa lettura possibile riferendomi al genere come "intenzionale e non-referenziale" in "Performative Acts and Gender Constitution = Atti performativi e costituzione del genere". Uso il termine "intenzionale" in uno specifico significato fenomenologico. "Intenzionalità" in fenomenologia non significa volontario o deliberato, ma, semmai, è un modo di caratterizzare la coscienza (od il linguaggio) come avente un oggetto, più specificamente, come diretta verso un oggetto che può o non può esistere. In questo senso, un atto di coscienza può intendere (presumere, costituire, percepire) un oggetto immaginario. Il genere, nella sua idealità, può essere inteso come un oggetto intenzionale, un ideale che è costituito ma che non esiste. In questo senso, il genere sarebbe come il "femminino", discusso da Cornell come una cosa impossibile in Beyond Accomodation.

[7] In questo senso, uno potrebbe utilmente interpretare la ripetizione performativa delle norme come l'operazione culturale della ripetizione-compulsione nel senso di Freud. Questa sarebbe una ripetizione non al servizio della padronanza del piacere, ma come quella che ne distrugge completamente la padronanza. È stato in questo senso che Lacan ne I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi argomenta che la ripetizione segna il fallimento della soggettivazione: quello che si ripete nel soggetto è proprio quello che non si padroneggia o non si può padroneggiare.

[8] Vedi Román [Román, David. "It's My Party and I'll Die If I Want To!": Gay Men, AIDS and the Circulation of Camp in U.S. Theatre." Theatre Journal 44 (1992): 305-27 - dalla bibliografia in calce all'articolo, NdR]
[9] Vedi Kramer; Crimp and Rolston; e Sadownick. I miei ringraziamenti a David Román per avermi indicato quest'ultimo saggio. [Seguono i riferimenti bibliografici - NdR]
  • Kramer = Kramer, Larry, Reports from the Holocaust: The Making of an AIDS Activist. New York: St. Martin's Press, 1989
  • Crimp and Rolston = Crimp, Douglas, and Adam Rolston, eds. AIDS DemoGraphics. Seattle: Bay Press, 1990
  • Sadownick = Sadownick, Doug: "ACT UP Makes a Spectacle of AIDS." High Performance 13.1, no. 49 (1990): 26-31.
Mi dovete scusare per l’astrusità del testo, ma non si può semplificare più di tanto un testo americano quando lo si traduce in italiano.

Come vedete, gli omofobi non leggono i teorici che vogliono confutare, bensì le persone che vogliono ingraziarsi; e quando queste ultime commettono un errore, non sono capaci di accorgersene e lo fanno proprio per decenni. L’articolo della Butler era stato pubblicato la prima volta nel 1993, eppure queste panzane continuano a circolare dopo vent’anni.

Un paio di esempi li ho citati qui:


e sono:
  • I difensori della teoria del genere sostengono l'idea che, prima di essere uomini o donne, noi siamo esseri umani. Si tratta di un sofisma illusorio e accondiscendente, dato che l'essere umano in sé non esiste. Incontriamo infatti persone umane che sono o uomini o donne. Non esistono d'altro canto altre identità oltre a queste (da p. 61 del libro ivi stroncato).
  • La teoria del genere afferma che non esiste una natura umana poiché l’essere umano sarebbe unicamente un risultato della cultura. Essa cerca di dimostrare che la mascolinità e la femminilità non sono che costruzioni sociali, dipendenti dal contesto culturale di ogni periodo (da p. 36 del libro ivi stroncato). 
A parte la curiosa contraddizione tra i due brani del medesimo autore (nel primo è scritto che “l’essere umano in sé non esiste”, nel secondo si condanna l’affermazione che “non esiste una natura umana”), il primo esempio viene facilmente confutato dal confronto con codesto articolo; il secondo, non solo da quest’articolo, ma anche dal capitolo del libro “Undoing Gender = La disfatta del genere” in cui nel 2004 Judith Butler ricorda la storia di David Reimer, nato maschio, castrato accidentalmente da piccolo, e che si tentò di trasformare in una femmina, con risultati tanto catastrofici da portarlo al suicidio – la Butler ammette che casi come questo confermano che il genere non è disincarnato.

E qui mi sovviene una storiella del Talmud, in cui (bBaba Mezi'a 84a) si racconta la triste storia (probabilmente inventata, anche se i due protagonisti sono storici - vedi anche le pp. 114-116 di Rabbinic Stories / Edited by Jeffrey L. Rubenstein) di rav Yohanan e Resh Lakish, vissuti nel 3° Secolo DC; il loro rapporto era con ogni probabilità omoerotico (nessun Talmid Haham se ne scandalizza, e Daniel Boyarin ne approfitta anzi per dire qui che l'omofobia non è intrinseca all'ebraismo, ma è nata per imitazione servile del cristianesimo), e lo rinsaldarono non andando a letto insieme (cosa assolutamente vietata), ma sposando Resh Lakish la sorella di Yohanan.

Resh Lakish era un brigante, ma per amore di Yohanan divenne uno studioso della Torah al pari di lui - sono considerati i due giganti della 2^ generazione degli amorei; quando purtroppo i due litigarono tanto aspramente che Resh Lakish ne morì di dolore, ad Yohanan diedero come compagno di studi Eliezer ben Pedat.

Questi si è fatto un nome tra gli amorei, ma ad Yohanan non piaceva, ed un giorno questi disse che rimpiangeva Resh Lakish, perché ogni volta che Yohanan diceva una cosa, Resh Lakish trovava 24 obiezioni a quello che diceva.

Ed Yohanan si arrabbiava? Nient'affatto, perché era stimolato a ribattere con 24 risposte, ed alla fine tutti e due avevano capito meglio il punto in questione.

Invece Eliezer ben Pedat, quando Yohanan diceva qualcosa, gli trovava una pezza d'appoggio. Ed ad Yohanan questo piaceva? No, perché la pezza d'appoggio la conosceva già, Eliezer non gli faceva un favore, ed anzi Yohanan si chiedeva se Eliezer non stesse insinuando che lui non sapeva quello che diceva.

Gli omofobi si comportano come Eliezer ben Pedat, e non hanno uno Yohanan che li rimetta al loro posto.

Raffaele Ladu

Arcigay risponde al giovane Davide

Arcigay a Davide, coraggio siamo fortunati a essere gay
Caro Davide, oggi sono stato ai funerali di Don Andrea Gallo a Genova. Don Andrea era un uomo che con infinita saggezza ha saputo unire la sua fede e il suo ruolo all’interno della Chiesa a una conoscenza e comprensione profonda del mondo e di tutti gli uomini. Don Gallo diceva “L’amore è un dono di Dio. Quando c’è l’amore non ci può essere niente di sbagliato, quindi rispettate i gay, gli eterosessuali e i trans”. 

Queste parole sono agli esatti antipodi del suicidio avvenuto a Parigi, lo scrittore che odiava gli omosessuali è stato lui stesso vittima di questa follia maligna che chiamiamo omofobia e che ha finito per divorare uno dei suoi divulgatori. Non c’è nulla di sbagliato in te, né c’è in te nulla da riparare, come vorrebbero farti credere tanti falsi terapeuti, subdoli divulgatori dello stesso odio del suicida francese. 

Caro Davide, sei stato fortunato a nascere gay. Così come sono fortunate tutte le persone omosessuali, bisessuali e trans, tutte portatrici di una diversità rispetto alla maggioranza che arricchisce e rende migliore la società in cui viviamo. E di questo devi essere orgoglioso. La nostra sfortuna sta semmai nel vivere in un paese che si rifiuta di capire la bellezza dell’amore anche quando questo amore è fra due uomini o due donne. Ti posso però dare una buona notizia, nonostante vaste sacche di intolleranza l’Italia è molto meglio di quanto possa sembrare: certamente più accogliente e inclusiva di dieci o venti anni fa. 

A restare ostinatamente sorda e ottusa è solo la classe politica che ci governa. Una classe politica incapace di vedere il carico di sofferenza che tu hai messo nella tua lettera, la stessa sofferenza di milioni di altre persone in questo paese, e che verrebbe attenuata se solo si percepissero segnali concreti da parte delle istituzioni. Una legge contro l’omofobia e una azione culturale e sociale adeguata contro le discriminazioni non è chiedere la luna, ma è cercare di portare anche il nostro paese fra i paesi civili. Su una cosa ti sbagli. Non devi chiedere commiserazione o carità cristiana. 

Devi esigere a gran voce dignità e rispetto. E uguaglianza nei diritti. A cominciare dal diritto di sposare la persona che ami e con cui vuoi vivere per la vita. Anche facendo nascere o crescere dei figli, perché ne hai la capacità, non meno di quanto ce l’abbiano le persone eterosessuali. Caro Davide, devi essere fiero di ciò che sei, ti auguro di trovare in te stesso la forza per urlarlo al mondo, e per reclamare i tuoi diritti a viso aperto e a testa alta. Sappi che non sei solo in questa lotta per un mondo migliore, che renderà più felice la tua vita e la vita di milioni di gay, lesbiche e trans italiani. 

Flavio Romani Presidente Arcigay – Associazione LGBT italiana

Laura Boldrini: Caro Davide, non ti lasceremo solo.

Laura Boldrini, presidente della camera, risponde al giovane Davide Tancredi, il 17enne gay che ha scritto a Repubblica.

Caro Davide, non ti lasceremo solo. L'omofobia diventerà presto un reato
di LAURA BOLDRINI*

Caro Davide, questa lettera te l'avrei scritta comunque, anche se non fossi presidente della Camera. Ho una figlia poco più grande di te, e t'avrei scritto come madre, turbata nel profondo dal tuo grido d'allarme, dalla solitudine in cui vivi, dal peso schiacciante che devi sopportare perché "non a tutti è data la fortuna di nascere eterosessuali". Scrivo a te per stabilire un contatto, e sento il dolore di non poter più fare lo stesso con una ragazza di cui stanno parlando in queste ore i giornali. La storia di Carolina fa male al cuore e alla coscienza: ha deciso di farla finita, a 14 anni, per sottrarsi alle umiliazioni che un gruppo di piccoli maschi le aveva inflitto per settimane sui social media. E consola davvero troppo poco apprendere che ora questi ragazzini dovranno rispondere alla giustizia della loro ferocia. 

Vi metto insieme, Davide, perché tu e Carolina parlate a noi genitori e ad un Paese che troppo spesso non sa ascoltare. Tu lo hai fatto, per fortuna, con le parole affilate della tua lettera. Lei lo ha fatto saltando giù dal terzo piano. Ma descrivete entrambi una società che non sa proteggere i suoi figli. Non sa proteggerli perché oppressa dal conformismo, incapace di concepire la diversità come una ricchezza per tutti e disorientata di fronte ai cambiamenti. Una società in cui - ancora nel 2013, incredibilmente - tu sei costrettoa ricordare che "noi non siamo demoni, né siamo stati toccati dal Demonio mentre eravamo in fasce". A te sono bastati i tuoi pochi anni per capire che "non c'è nessun orrore ad essere quello che si è, il vero difetto è vivere fingendosi diversi". Una società che non sa proteggere i suoi ragazzi dalle violenze, vecchie e insieme nuove, come quella che ha piegato Carolina: lo squallido bullismo maschile antico di secoli, che oggi si ammanta di modernità tecnologica e con due semplici click può devastare la vita di una ragazza in modo cento volte più tremendo di quanto sapessero fare un tempo, quando io avevo la tua età, i più grevi pettegolezzi di paese. 

Ti ringrazio, Davide, perché hai avuto il coraggio di chiamarci in causa, di mettere noi adulti di fronte alle nostre responsabilità. Le mie sono sì quelle di madre, ma ora soprattutto di rappresentante delle istituzioni. E ti assicuro che le tue parole ce le ricorderemo: non finiranno impastate nel tritacarne quotidiano, che ci fa sussultare di emozione per qualche minuto, e poi ci riconsegna all'indifferenza. Il compito del nostro Parlamento lo hai descritto bene tu, che pure hai molti anni in meno dell'età richiesta per entrarci: "Un Paese che si dice civile non può abbandonare dei pezzi di sé. Non può permettersi di vivere senza una legge contro l'omofobia, un male che spinge molti ragazzi a togliersi la vita". L'altro giorno, in un incontro pubblico contro la discriminazione sessuale, ho sentito ricordare il ragazzo che amava portare i pantaloni rosa, e che oggi non c'è più. A lui, a te, le nostre Camere devono questo atto di civiltà, e spero davvero che la legislatura appena iniziata possa presto sdebitarsi con voi.

Così come ritengo che sia urgente trovare il modo per crescere insieme nell'uso dei nuovi media. Le loro potenzialità sono straordinarie, possono essere e spesso sono poderosi strumenti di libertà, di emancipazione, di arricchimento culturale, di socializzazione. Ma se qualcuno li usa per far male, per sfregiare, per violentare, non possiamo chiudere gli occhi. Il problema, in questo caso, non è quello di varare nuove leggi: gli strumenti per perseguire i reati ci sono e vanno usati anche incrementando, se necessario, la cooperazione tra Stati. Ma sarebbe ipocrita non vedere la grande questione culturale che storie drammatiche come quella di Carolina ci pongono: i nostri ragazzi, al di là della loro invidiabile abilità tecnologica, fino a che punto sono consapevoli dei danni di un uso distorto dei social media? E noi adulti - le famiglie e la scuola - siamo in grado di portare dei contributi per una gestione più responsabile di questi strumenti? Vorrei che ne ragionassimo anche nei luoghi istituzionali della politica.

Hai chiesto di essere ascoltato, Davide. Se ti va, mi farebbe piacere incontrarti nei prossimi giorni alla Camera, per parlare di quello che stiamo cercando di fare. A Carolina non posso dirlo, purtroppo, ma vorrei egualmente conoscere i suoi familiari. Per condividere un po' della loro sofferenza, e perché altre famiglie la possano evitare.
(l'autrice è presidente della Camera)

Leggi la lettera di Davide

La Repubblica: Io, gay a 17 anni chiedo solo di esistere

CARO direttore, questa lettera è, forse, la mia unica alternativa al suicidio. Ciò che mi ha spinto a scrivere è la notizia di un gesto avvenuto nella cattedrale parigina. Un uomo, un esponente di destra, si è tolto la vita in modo eclatante sugli scalini della famosa chiesa per manifestare il proprio disappunto contro la legge per i matrimoni gay deliberata dall'Assemblea Nazionale francese.Nonostante gli insegnamenti dalla morale cristiana, io ritengo che il suicidio sia un gesto rispettabile: una persona che arriva a privarsi del bene più prezioso in nome di una cosa in cui crede, merita molta stima e riguardo; ma neppure questa considerazione riesce a posizionare sotto una luce favorevole quello che mi appare come il gesto vano di un folle. La vita degli altri continua anche dopo la fine della nostra. Siamo destinati a scomparire, anche se abbiamo riscritto i libri di storia. Morire per opporsi all'evolversi di una società che tenta di diventare più civile è ottusità e evidente sopravvalutazione delle proprie forze.Il Parlamento italiano riscontrando l'epico passo del suo omologo d'oltralpe ha subito dichiarato di mettersi in linea per i diritti di tutti. Una promessa ben più vana del gesto di un folle. Tutti sappiamo come il nostro Paese sia l'ultimo della classe e che non ci tenga ad apparire come il più progressista. Si accontenta di imitare o, peggio ancora, finge di farlo. La cultura italiana rabbrividisce al pensiero che
due persone dello stesso sesso possano amarsi: perché è contro natura, perché è contro i precetti religiosi o semplicemente perché è odio abbastanza stupido da poter essere italiano. Spesso ci si dimentica che il riconoscimento dei matrimoni omosessuali non significa necessariamente affidare a una coppia "anormale" dei bambini ma permettere a due individui che si vogliono bene di amarsi. In questo consiste il matrimonio, soprattutto nella mentalità cattolica. E allora perché quest'ostinata battaglia?Io sono gay, ho 17 anni e questa lettera è la mia ultima alternativa al suicidio in una società troglodita, in un mondo che non mi accetta sebbene io sia nato così. Il vero coraggio non è suicidarsi alla soglia degli ottanta anni ma sopravvivere all'adolescenza con un peso del genere, con la consapevolezza di non aver fatto nulla di sbagliato se non seguire i propri sentimenti, senza vizi o depravazioni. Non a tutti è data la fortuna di nascere eterosessuali. Se ci fosse un po' meno discriminazione e un po' più di commiserazione o carità cristiana, tutti coloro che odiano smetterebbero di farlo perché loro, per qualche sconosciuta e ingiusta volontà divina, sono stati fortunati. Io non chiedo che il Parlamento si decida a redigere una legge per i matrimoni gay  -  non sono così sconsiderato  -  chiedo solo di essere ascoltato.Un Paese che si dice civile non può abbandonare dei pezzi di sé. Non può permettersi di vivere senza una legge contro l'omofobia, un male che spinge molti ragazzi a togliersi la vita per ritrovare quella libertà che hanno perduto nel momento in cui hanno respirato per la prima volta. Non c'è nessun orrore ad essere quello che si è, il vero difetto è vivere fingendosi diversi. Noi non siamo demoni, né siamo stati toccati dal Demonio mentre eravamo in fasce, siamo solo sfortunati partecipi di un destino volubile. Ma orgogliosi di esserlo. Chiediamo solo di esistere.

DAVIDE TANCREDI

Lettera mandata al direttore de LA REPUBBLICA