Recensione: Giovanna "Nina" Palmieri, Ragazze che amano ragazze

Giovanna "Nina" Palmieri
Ragazze che amano ragazze
Milano Mondadori 2010
http://www.bol.it/libri/Ragazze-che-amano-ragazze/Giovanna-Nina-Palmieri/ea978880460203/

L'autrice è una conduttrice televisiva che, in quanto autrice della serie TV I viaggi di Nina su La7, è diventata un'icona del mondo lesbico italiano, sebbene ella sia solidamente etero.

Il libro racconta le storie interessanti commoventi di alcune donne e famiglie lesbiche, ed ha certo il merito di presentare le protagoniste come donne assai normali, le cui rivendicazioni (il matrimonio, l'adozione, la procreazione medicalmente assistita, la visibilità e la fine dell'emarginazione sociale) risultano quindi perfettamente ragionevoli.

Il primo capitolo è il più bello, in quanto mostra una "lella" capace non solo di impegno militante ed un grande amore per tutte le persone della sua vita (non solo la sua partner), ma anche del difficile impegno di recarsi ad Addis Abeba e prendersi cura dei bambini stuprati accolti da un'associazione alla quale va parte del ricavo delle vendite del libro. Chi pensa che solo gli/le etero siano persone generose e capaci di impegno per cause che non li riguardano direttamente è servito!

Altri capitoli illustrano, più che le coppie, le famiglie lesbiche; uno, che mostra una convivenza abbastanza felice tra cinque donne (due ex-amanti che hanno continuato a convivere pur avendo stretto nuovi amori, le loro nuove partner, e la madre di una di loro) sembra illustrare molto bene quello che avevo letto in un altro libro già recensito qui ("Cocktail d'amore. Più di 700 modi di essere lesbica"), ovvero che le rotture totali e definitive, quelle in cui si fa voto di non parlarsi mai più, sono estremamente rare tra le donne lesbiche, e l'ex-amante (od ex-moglie, se l'Italia non fosse un paese tanto idiota da vietare il matrimonio omosessuale) spesso rimane una grande amica - e rende possibile soluzioni come questa.

Il capitolo che mi è piaciuto di meno è stato la visita ad un sex-shop romano favorito dalle donne lesbiche, con tutte le spiegazioni sui giocattoli preferiti da loro, e su cosa li differenzia da quelli preferiti invece dalle etero.

Non ho nulla contro i giocattoli erotici, anzi: se avessi il physique du rôle, andrei a venderli porta a porta; però il capitolo lascia intendere che per le lesbiche essi siano indispensabili (secondo il già citato "Cocktail d'amore", invece, le lesbiche che dichiarano di farne uso sono appena 1/3 - una cifra comunque importante), e guarda caso, la maggior parte di quelli descritti sono di forma e funzione fallica.

Non è che l'autrice, nel tentativo di rassicurare le sue lettrici ed i suoi lettori etero che le lesbiche sono molto più simili alle etero di quanto si creda comunemente, abbia voluto dare troppa importanza alle lesbiche che sentono la mancanza del fallo e vogliono il sostituto, trascurando invece quelle che se la cavano benissimo con quello che ha dato loro la Natura?

Nina Palmerini non è Monique Wittig, insomma, la quale affidava alla lesbica nientedimeno che il compito di scardinare la metafisica occidentale creando un soggetto non sessuato perché alieno dall'eterosessismo. Le lesbiche della Palmerini non hanno queste ambizioni, e si limitano a chiedere la sacrosanta parità di diritti.



Raffaele Ladu

Il socialismo degli imbecilli


Non parlo qui di una questione di genere, bensì di un problema genericamente umano: l'antisemitismo, tuttora diffuso a sinistra, ed usato da alcune formazioni estreme come segno di distinzione nei confronti delle formazioni che hanno invece imparato la lezione di Gramsci (1), sebbene già August Ferdinand Bebel (1840-1913) avesse dichiarato che "l'antisemitismo è il socialismo degli imbecilli".
Mi è capitato recentemente di avere a che fare con un'organizzazione LGBT sarda, che ha raccolto non la mia ammirazione, ma la mia indignazione quando ho scoperto che il suo presidente era convintissimo non solo che occorresse festeggiare l'11 Settembre come giorno fausto, ma anche che non ci fossero state vittime ebree quel giorno del 2001 (2).
La cosa più spiacevole è che il presidente era stato candidato alle elezioni amministrative della città che vanta la più antica università sarda (riconosciuta come tale nel 1617 da Filippo 3° di Spagna) nel 2010, da un cartello di partiti che includeva i Verdi, i Socialisti e Sinistra e Libertà - nessuna di queste formazioni ha voluto accertarsi di non avere le persone stigmatizzate da Bebel in lista.
La storia e l'ideologia dell'antisemitismo sono state oggetto di molti studi volti ad individuarne le peculiarità rispetto ad altre forme di intolleranza (3); qui vorrei invece farne notare le somiglianze.
L'antisemita ritiene assolutamente lecito discriminare socialmente, politicamente, legalmente un gruppo umano ritenuto "pericoloso"; e le panzane che su questo gruppo racconta (e questo a prescindere dal fatto che gli appartenenti ad un gruppo non sono mai tanto omogenei da poter dedurre di ognuno di loro qualcosa di significativo partendo dalla loro appartenenza a quel gruppo) dimostrano che lui non ha bisogno di trovare dei "difetti" per attaccare quel gruppo.
Che il gruppo umano preso di mira si chiami "popolo ebraico" è un caso: in altre contingenze la medesima persona attaccherebbe altri gruppi sociali. Pertanto l'antisemita non è un problema solo per gli ebrei: non ha alcuna credibilità quando afferma di lavorare per i diritti dell'uomo e l'inclusione sociale, in quanto ha sempre la riserva di lavorare per l'esclusione di un gruppo umano e contro i diritti di chi ne fa parte.
Analoghe affermazioni si potrebbero fare degli anti-islamici che purtroppo pullulano anche in Italia; se gli antisemiti  intendono l'antisemitismo un sentimento anticapitalistico, e per questo meritano la citazione di Bebel, gli anti-islamici spesso usano a pretesto per le loro parole, opere ed omissioni la pretesa difesa dei diritti delle donne e delle persone LGBTQ (cercando di far dimenticare quanto li conculcano in realtà essi stessi), e si meritano questa parafrasi: l'anti-islamismo è il femminismo delle imbecilli. Judith Butler a Berlino se ne è resa conto.
Raffaele Ladu


Note:
(1) La lezione di Gramsci dovrebbe essere ben nota: il proletariato [ma lo stesso discorso vale per le persone LGBTQ] non può gestire una società da solo, ma ha bisogno di creare alleanze con altre classi sociali e stabilire un'egemonia culturale che induca la società ad evolversi in senso rivoluzionario.
Ma se ci si dimentica Gramsci, e ci si chiude nel proprio gruppetto settario, si va a caccia di pretesti per escludere sempre più persone dall'avanguardia rivoluzionaria, e si lascia aperta la porta all'antisemitismo.
Non per niente il peggior antisemitismo nell'URSS e nei paesi satelliti ci fu quando il partito comunista al potere si accorse di aver perso la battaglia per l'"egemonia" e di essere socialmente isolato e disprezzato. Potremmo dire che il declino di Berlusconi potrebbe vedere un aumento delle discriminazioni contro gli immigrati ed i mussulmani in Italia, e dell'isteria a favore della "famiglia tradizionale", come se le persone LGBTQ non facessero famiglia!
Sono stat* ["Fedra" è lo pseudonimo di un autore di sesso maschile e genere in divenire] comunista per anni, ed ora mi ritengo liberale; ma Gramsci accettò la sfida del pensiero dell'ex-socialista divenuto liberale Croce, e questo suo insegnamento vale per chiunque faccia una politica che non sia solo amministrazione.
(2) Si stima che tra le vittime dell'11 Settembre 2001, le vittime ebree siano state circa 400; il Dipartimento di Stato USA ha pubblicato la biografia di 76 vittime certamente ebree di quell'attacco.
(3) Ho trovato queste recensioni di due libri sull'antisemitismo:
Personalmente, preferisco la psicologia sociale alla storia delle idee, e vedo nell'antisemitismo una manifestazione del fenomeno detto "esclusione morale" - l'antisemita si rifiuta di considerare l'ebreo come un suo simile, e ritiene lecito fargli ciò che non vorrebbe fosse fatto a coloro che considera parte del proprio gruppo sociale.
Altri meccanismi ben indagati dalla psicologia sociale contribuiscono a trasformare un'avversione d'animo in una condotta genocida - il libro che vi consiglio per cominciare a studiarli è "Uomini comuni" di Christopher Browning, Einaudi.

Judith Butler e Martin Buber



Leggiamoci questa storiella chassidica riportata da Martin Buber (la traduzione che ho fatto del testo che si trova qui non è detto che coincida con l'edizione italiana dell'opera):
Quando il fondatore dell'ebraismo chassidico, il gran Rabbino Israel Shem Tov, vedeva che una sventura minacciava gli ebrei, era sua abitudine andare in un certo luogo della foresta per meditare. Lì avrebbe acceso un fuoco, detto una preghiera speciale, il miracolo si sarebbe compiuto e la sventura evitata.
In seguito, quando il suo discepolo, il celeberrimo Maggid di Mezritch, ebbe l'occasione di intercedere al cielo per lo stesso motivo, egli si sarebbe recato nella foresta ed avrebbe detto: "Signore dell'Universo, ascolta! Non so accendere il fuoco, ma sono ancora capace di dire la preghiera". Ed il miracolo si sarebbe ripetuto.
Ancora più tardi, il Rabbino Moshe-Leib di Sasov, per salvare ancora una volta il suo popolo, sarebbe andato nella foresta a dire: "Non so accendere il fuoco. Non so la preghiera, ma conosco il posto, e questo deve bastare". Bastò, ed il miracolo fu compiuto.
Infine toccò al Rabbino Israel di Rizhin sventare la sventura. Seduto nella sua poltrona, con la testa fra le mani, parlò a Dio: "Non so accendere il fuoco, non conosco la preghiera, e non posso nemmeno ritrovare il posto giusto nella foresta. Posso solo raccontare la storia, e questo deve bastare".
E bastò - perché Dio fece l'uomo perché amava le storie.
E leggiamoci ora questo brano del libro di Judith Butler "Gender Trouble = Scambi di genere", tratto da pagina 191 dell'edizione originale (la traduzione è mia e non è detto che coincida con l'edizione italiana):
In che sensi, allora, il genere è un atto? Come in altri drammi sociali rituali, l'azione del genere richiede un'esecuzione [performance] che è ripetuta. Questa ripetizione è allo stesso tempo un re-agire [reenactment] ed un ri-provare [reexperience] un insieme di significati già stabiliti socialmente; ed è la forma mondana e ritualizzata della loro legittimazione. Sebbene ci siano dei corpi individuali che agiscono questi significati diventando stilizzati in modi di genere, l'"azione" è un'azione pubblica. Ci sono dimensioni temporali e collettive in queste azioni, ed il loro carattere pubblico non è senza conseguenze; in  effetti, l'esecuzione è compiuta con lo scopo strategico di mantenere il genere nella sua struttura dicotomica [binary frame] - uno scopo che non si può attribuire ad un soggetto, ma, semmai, va inteso come fondatore e consolidatore del soggetto.
Le somiglianze tra i due brani non sono affatto casuali: Judith Butler è ebrea, molto nota anche in Israele, in quest'intervista cita esplicitamente Martin Buber, e leggendo il suo libro uno si fa l'idea che il genere per lei sia molto simile alla visione che di Dio ha l'ebraismo ricostruzionista.
Se per i ricostruzionisti Dio non è una persona, ma semplicemente la somma delle forze e dei processi naturali che consentono all'umanità di raggiungere l'autorealizzazione e compiere un progresso morale, per la Butler il genere non esiste indipendentemente da noi esseri umani; però noi ci comportiamo come se esso esistesse, e perciò lo rendiamo "reale" nelle nostre vite individuali e sociali.
E la cosa più importante di questo comportamento è continuare a citare la storia che dimostra il nostro avere un certo genere (riassunta nel nostro certificato di nascita, nella sentenza di rettificazione del sesso oppure [in Germania] in quella di attribuzione di un alias) - allo stesso modo in cui per i chassidim amati da Buber la cosa importante non era il fuoco, non era la preghiera, non era il luogo in cui recarsi, ma la storia da raccontare!
Sebbene strida con la credenza in un dio personale tipica delle altri correnti ebraiche, definire Dio allo stesso modo in cui la Butler descrive il genere non è del tutto incompatibile con l'ebraismo - esiste infatti un brano talmudico che così commenta Isaia 43:12: "Se voi siete miei testimoni, allora sarò il vostro Dio. Ma se non siete i miei testimoni, allora, per così dire, non sarò il vostro Dio", di cui è difficile dare un'interpretazione non-butleriana, ovvero diversa dal pensare che Dio esiste soltanto nella misura in cui noi ci comportiamo come se lui esistesse.
Credo che B16, alias il filosoficamente accorto Papa Joseph Ratzinger, si sia subito reso conto del potenziale esplosivo delle teorie di Judith Butler, non solo per la tradizionale dicotomia di genere, ma anche per il teismo alla base delle tre religioni abramitiche - e per questo le abbia condannate con parole di fuoco.
Infatti il bersaglio polemico principale della Butler è la concezione ingenua secondo cui ci sono entità che esistono prima ed indipendentemente dalla cultura, e che perciò la riflessione umana deve prendere come dati di fatto; e per chi crede in una religione abramitica, il tipico esempio di ente che esiste prima ed indipendentemente da noi e dal nostro pensiero è Dio.
Ma se noi studiamo almeno superficialmente la Qabbalah teosofico-teurgica (quella  che inizia con lo Zohar), noi scopriamo che per chi ci crede (ci sono ebrei che rifiutano la Qabbalah) Dio ha una struttura interna, che il male del mondo rende accessibile alla speculazione (teosofia) ed all'intervento umano (teurgia).
Quindi, per la Qabbalah Dio non è un semplice dato di fatto - l'attività umana può  modificarne le caratteristiche; e l'intervento più semplice a portata del pio ebreo è premettere alla recitazione della preghiera del mattino la formula: "Per unificare il Santo, Benedetto Egli Sia, e la Sua Presenza; per unificare con timore ed amore il Suo Nome YH con WH [in modo che riuniti compongano il tetragramma YHWH], in perfetta unità ed in nome di tutto Israele".
Chi si è letto le considerazioni di Judith Butler sul sesso, secondo cui esso non è un dato naturale che si impone all'osservazione, ma una categoria costruita dal  pensiero medico in cui raggruppare diversi organi che [lo notano di più le donne degli uomini] operano spesso separatamente, si fa venire il sospetto che ella non abbia solo un grosso debito con Michel Foucault, ma anche una ipoteca impagabile con la tendenza ebraica, vecchia di quindici secoli almeno, a fare di ogni ente (compreso l'Eterno) l'oggetto non solo della speculazione ma anche dell'attività umana.
C'è anche un'altra affinità tra il genere secondo Butler ed il ruolo che doveva svolgere la divinità nella storiella citata da Buber: la dicotomia di genere avrebbe lo scopo, secondo gli eterosessisti di ogni ordine e grado, di garantire l'ordine del mondo e l'esistenza di un soggetto capace di articolare un discorso; ma qual era la più grande sventura che temevano i rabbini citati da Buber?
Normalmente pensiamo che la sventura peggiore per gli ebrei sia lo sterminio genocida di tipo nazista; ma i rabbini di Buber vissero prima che fosse concepita la soluzione finale (Israel Baal Shem Tov nacque nel 1699 ed Israel di Rizhin morì nel 1850), ed i pur gravi massacri che avvenivano in occasione dei pogrom non avevano l'intento di far scomparire il popolo ebraico in quel modo.
La sventura peggiore si chiama assimilazione, ovvero il fatto che gli ebrei smettano di pensare ed agire in modo diverso dai gentili [non-ebrei], e dimentichino perciò di essere ebrei; nel mondo contemporaneo, in cui il quarto esercito del mondo [quello israeliano] rende una ripetizione della Shoah assai improbabile, l'assimilazione è tornata ad essere la più grande paura degli ebrei religiosi.
Per loro, un mondo in cui gli ebrei sono assimilati, divenendo indistinguibili dai  gentili, non è meno disordinato di un mondo in cui i generi non sono più due e nettamente distinti, e penso che il rito di questi rabbini dovesse appunto impedire che nel mondo si realizzasse questo grave disordine.

Tra parentesi, non è solo il dio abramitico che rischia di essere scomodamente paragonato al genere secondo Butler: questo rischio lo corrono anche i popoli della terra, e quello ebraico in particolare.

Secondo il diritto internazionale, popolo è un gruppo di persone unite da un comune destino. Come si dimostra questa comunanza di destini? Semplicemente, occorre saperla raccontare.
Non sto distinguendo ora le storie "buone" da quelle "cattive", ma semplicemente constatando la situazione; se vi consola, vi dico però che gli statuti attuali della Regione Veneto (art. 2) e della Regione Sardegna (art. 15) usano rispettivamente le espressioni "popolo veneto" e "popolo sardo" senza che il governo centrale li abbia mai impugnati - ergo i veneti ed i sardi sono stati capaci di convincere il mondo intero di essere ciascuno un popolo.
Non basta raccontare questa storia una volta sola, perché, come disse Ernest Renan, far parte di una nazione è una scelta che si rinnova ogni giorno (allo stesso modo in cui l'essere di uno dei due generi previsti va dimostrato tutti i giorni); questo vale per tutti i popoli della terra, anche quello ebraico, ovviamente.
Ma esso ha agli occhi di alcuni una particolarità: la divina elezione, che consiste nella promessa di non essere mai annientato, e nel compito di elevare moralmente l'umanità.
Comunque sia descritto il meccanismo di quest'elezione, e qualunque siano le conseguenze teologiche che se ne traggono, quest'elezione attribuisce (agli occhi di chi ci crede, ovviamente) al popolo ebraico un'essenza particolare diversa da quella del resto dell'umanità.
La Butler si è trovata quindi nella sua famiglia, nella sua sinagoga, e nella sua scuola ebraica già pronto lo schema che divide l'umanità in due categorie esclusive: ebrei e gentili per la religione ebraica, maschi e non maschi per il maschilismo criticato da Luce Irigaray, soggetti universali [i maschi etero] e non-soggetti [il resto] per l'eterosessismo attaccato da Monique Wittig.
Una dicotomia finisce sempre con lo stabilire una gerarchia tra le due parti, anche quando (come nello Yang e nello Yin cinese) le due parti possono facilmente trasformarsi l'una nell'altra; e, come ho detto in altra occasione, quando si crea un copione di diseguaglianza ed oppressione, la scelta di chi viene scritturato per le singole parti è arbitraria.
Per questo l'antisemitismo, l'antiislamismo, ed altre forme di discriminazione ed intolleranza sono inaccettabili anche a livello politico: chi le tollera non può mai essere sicuro non essere chiamato a recitare la parte perdente del copione!
In entrambi i casi (esclusivismo ed eterosessismo) i rimedi sembrano questi (mi ispiro alla Butler, ma il paragonare i generi con i popoli, cosa utile perché i popoli ci danno un modello molto ben collaudato di performatività applicata alla politica, è opera mia):
1) rinunziare all'essenzialismo: si è ebrei o gentili, maschi o femmine perché si racconta e si recita a sé ed agli altri una storia che giustifica l'ascrizione ad una categoria, non perché si possegga o si sia privi di un attributo di origine esterna alla cultura ed alla società umana (la divina elezione od il fallo);
2) rinunziare alle dicotomie: esistono migliaia di popoli sulla terra, e l'umanità continua a proliferare; perché non dovrebbe accadere la stessa cosa se i generi si moltiplicassero?
3) accettare le ibridazioni: come una persona può essere italiana ed americana, italiana ed israeliana, veneta e sarda allo stesso tempo, senza per questo meritare accuse di slealtà, allo stesso modo una persona può adottare per se stessa elementi pertinenti a diversi generi senza che questo la renda socialmente meno valida;
4) adottare l'ironia (la Butler preferisce parlare di "risata" [laughter]), che impedisce di prendere troppo sul serio il ruolo di genere che si sta recitando, permette di esplorare scelte alternative, e pone le basi per sovvertire la fissità dei generi.
Certo, come non tutti riescono a far ridere recitando in un teatro israeliano, nella parte di Tevye il lattivendolo: "Ho capito, siamo il Tuo popolo eletto! Ma, visto quello che ci è costata quest'elezione, perché non eleggi un altro popolo una volta ogni tanto?", non tutti riescono a fare le drag queen in modo davvero divertente.

Però, bisogna provarci.


Raffaele Ladu

Recensione: Alison Bechdel, Dykes

http://dykestowatchoutfor.com/the-essential-dtwof
http://bur.rcslibri.corriere.it/libro/3277_dykes_bechdel.html
Alison Bechdel
Dykes
Milano Rizzoli 2009

E' uno dei più bei libri a fumetti che io abbia mai letto, anche se non mancano le debolezze.

Il pregio principale è che per le persone che non hanno idea di come vivano le donne lesbiche, questo libro è assai istruttivo, in quanto mostra amori, passioni politiche, ed in qualche caso pure le meschinità, di una comunità di lesbiche americane che fa capo ad una libreria specializzata. Ci si commuove molto a leggerlo, ed anche le occasionali scene erotiche non infastidiscono.

La debolezza principale è dovuta al fatto che ogni tavola del fumetto è autoconclusiva, ovvero concepita come una storia a sé stante (o quasi - alcune lasciano la storia in sospeso e rimandano esplicitamente alla puntata successiva), secondo il modulo dei fumetti pubblicati sul supplemento domenicale dei giornali americani.

Questo significa che le tavole raccolte nel libro non sono unite da una vera e propria trama, e la continuità della serie è data dagli avvenimenti politici americani, che vengono citati con grande abbondanza - non solo quindi per dar conto dell'impegno politico dell'autrice e dei personaggi che ha inventato.

Altro inconveniente portato dalle tavole autoconclusive è che l'autrice non si può permettere di dare al corteggiamento tra due lesbiche il respiro che ha nella realtà: quando si hanno solo sedici vignette a disposizione, non se ne possono dedicare più di due all'approccio - e la seconda, inevitabilmente, mostra la corteggiata (più esperta) che spiega alla corteggiante (meno esperta), che non si deve essere così dirette e frettolose, e che ci sono delle formalità da rispettare.

Poiché però la storia esige il 'lieto fine', la corteggiata è già innamorata, passa incredibilmente sopra a quest'evidente imperizia, e le due donne si mettono insieme - con il lettore avvertito che non deve pensare che in questo caso particolare il fumetto rispecchi la realtà.

Una caratteristica che può essere motivo di lode o biasimo a seconda delle lettrici e dei lettori è la tendenza didascalica di Alison Bechdel: molti dialoghi accennano ad interessanti questioni di teoria femminista o studi di genere, e sembrano stati concepiti più per dare alle lettrici ed ai lettori un'infarinatura su queste materie che per far progredire la storia.

Nella nostra società non sono le minoranze sessuali a potersi permettere il lusso di vivere in modo inconsapevole, e quindi il didascalismo di Alison Bechdel ha la sua utilità; a me, poco espert* di queste cose, è piaciuto, ma lettrici e lettori più esperti potrebbero preferire dialoghi di tipo letterario anziché pedagogico.

Il libro merita di essere letto, ed il titolo della sua edizione italiana, 'dykes', corrisponderebbe all'italiano 'lelle', in generale, ed a 'camioniste', in particolare. In America sono uscite diverse raccolte delle tavole di Alison Bechdel, ed il libro che sto recensendo è la traduzione dell'antologia "The Essential 'Dykes To Watch Out For' = L'essenziale di 'Lelle da tener d'occhio'".

Il sito ufficiale dell'autrice è: http://dykestowatchoutfor.com/ , ed ho notato che contiene anche della 'fan fiction', ovvero una storia ideata e disegnata da una fan - che però è stata convalidata dall'autrice e da lei pubblicata nel suo blog. Chi ha molto talento potrebbe provare anche l*i.



Raffaele Ladu

R/esistenze lesbiche nell'Europa nazifascista

P. Guazzo, I. Rieder, V. Scuderi (a cura di), R/esistenze lesbiche nell'Europa nazifascista, Verona, Ombre Corte, 2010, 190 pp.

 

Gli omosessuali, uomini e donne, figurano inequivocabilmente tra le vittime dimenticate della ferocia nazifascista, quelle che, al termine della Seconda Guerra mondiale, in virtù del loro status di criminali comuni che avevano in qualche modo "meritato" la punizione inflitta, non si videro nemmeno riconosciuto il diritto di reclamare un risarcimento per le sofferenze subite. Ma se i gay-non-ancora-gay, ritenuti più "pericolosi" dal punto di vista del mantenimento dell'ordine pubblico, sono stati oggetto di una persecuzione sistematica, fondata talvolta, come in Germania con il tristemente famoso Paragrafo 175, su leggi esistenti già prima dell'ascesa dei grandi regimi totalitari e all'occorrenza inasprite, per le lesbiche, per via della loro sessualità "poco credibile" (p. 84) e della loro condizione di donne che le relegava, ipso facto, ad un ruolo subalterno rispetto agli uomini, non si è generalmente ritenuto necessario intervenire penalmente per reprimere tali atti "contro natura", fatta eccezione per l'Austria con il Paragrafo 129 I b (I. Rieder, pp. 37-62). Il risultato è che, mentre per gli omosessuali maschi la persecuzione ha lasciato tracce documentarie di un certo rilievo, sul versante femminile la situazione risulta molto meno chiara : basti pensare alla classificazione operata nei campi di concentramento nazisti, dove ai gay come gruppo omogeneo viene assegnato, univocamente, il famigerato "triangolo rosa", mentre le lesbiche, in quanto "non-gruppo" (p. 87) vanno ricercate, volta a volta, tra le "asociali" (triangolo nero), tra le "politiche" (triangolo rosso) ma anche tra le ebree (stella gialla).

R/esistenze lesbiche nell'Europa nazifascista cerca quindi, in una prospettiva transnazionale che tocca in particolare la Germania, l'Austria, la Francia, l'Italia e la Spagna, di ricostruire le dinamiche della repressione del lesbismo dando voce, in egual misura, ai percorsi esistenziali di intellettuali e personaggi in vista, come Mopsa Sternheim (alla quale è dedicato un intero saggio di I. Rieder, pp. 152-166), e alle storie private di donne comuni, coinvolte in relazioni lesbiche talvolta finite agli onori della cronaca per il loro esito tragico (si pensi al caso di Vally M. e Ady H., diffusamente raccontato alle pp. 53-61) in altri casi invece, paradossalmente, protette dallo scoppio della guerra e dalla concomitante partenza degli uomini al fronte (pp. 35-36). Resistenti in senso stretto, alcune, e in senso lato, tutte : è quanto vuole suggerire il titolo di questa raccolta di saggi, dove la sbarra di R/esistenze indica che, in tempi di repressione, l'esistenza stessa rappresenta una forma di resistenza alla violenza perpetrata dall'esterno.

Come trovare spazi di sopravvivenza sotto regimi che negano all'individuo ogni libertà ? Una possibilità è costituita dall'alleanza tra lesbiche e omosessuali maschi, e non solo nella forma dei matrimoni di convenienza : nella Germania nazista che vietava persino di danzare con una persona del proprio sesso, esistevano ancora ristoranti come il Bart, residuo della vivace subcultura gay della Berlino di Weimar, dove il divieto veniva regolarmente infranto, salvo, in caso di pericolo e ad un segnale convenuto, sciogliere le fila e "ballare etero" (p. 34). Restavano possibili, entro certi limiti, compromessi con i vari regimi, ma per molte donne la strada dell'esilio appariva pressoché inevitabile, a maggior ragione quando, all'impossibilità di esprimersi in quanto lesbiche, si aggiungeva quella di realizzarsi in qualità di scrittrici : è il caso di tre intellettuali e incarnazioni del modello della Neue Frau, come Ruth Landshoff-Yorck, Christa Winsloe o Grete von Urbanitzky (V. Scuderi, pp. 63-79), per le quali, dopo il 1939, l'esilio diventa una condizione di vita irreversibile e si pone con urgenza il problema di tentare di esistere come autrici anche in una lingua straniera – il che avviene non senza difficoltà, e non sempre con i risultati sperati. Illusioni di libertà venivano inoltre prospettate alle lesbiche internate nei campi di concentramento nazisti : ritenute, rispetto agli omosessuali maschi, facilmente "curabili" e "recuperabili" ai fini della propagazione della razza germanica, venivano talvolta fatte l'oggetto di offerte di liberazione in cambio di un periodo di "rieducazione" di sei mesi da trascorrere in un bordello. L'esito di tale perversa offerta era scontato : consumate dalle malattie, queste donne, lungi dal raggiungere l'obiettivo, andavano incontro ad una morte certa (p. 94).

Almeno due dei saggi contenuti in R/esistenze lesbiche, quello di M.-J. Bonnet (pp. 80-103), che trae spunto da una pièce teatrale, Le Verfügbar aux Enfers, scritta nel campo di Ravensbrück da Germaine Tillion e dalle sue compagne nell'autunno del 1944, e quello di R. Osborne (pp. 127-151), si occupano dell'immagine del lesbismo nei campi di concentramento, luoghi per eccellenza di una disumanizzazione orchestrata dai gerarchi. Un'immagine non certo positiva, nemmeno tra le internate : particolarmente severa era la riprovazione, anche nelle carceri spagnole sotto il franchismo, delle "prigioniere politiche" militanti nel Partito comunista, desiderose di distinguersi dalle prigioniere comuni e propense a vedere in certi comportamenti "devianti" una forma di debolezza nei confronti dell'oppressione, alla quale andava invece opposta, secondo queste "monache rosse" (p. 145), la massima fermezza e integrità morale. Sta di fatto che, seppur mal vista, l'omosessualità, e il lesbismo nel caso specifico, non ha mai cessato di esistere né nelle carceri né nei lager, anzi, la sua ombra appare persino nei resoconti provenienti, per l'Italia, da istituzioni propriamente fasciste, quale fu l'Accademia di educazione fisica femminile di Orvieto (P. Guazzo, pp. 113-115).

Uno dei meriti di questo volume è senz'altro questo : non solo aiutare la memoria storica degli omosessuali (e non solo) di oggi gettando luce su categorie sociali ingiustamente ignorate dalla storiografia tradizionale, ma anche richiamare l'attenzione su documenti poco noti, quale che sia la loro natura (atti ufficiali, testi letterari, testimonianze o altro), che ci permettono di capire entro quali spazi, e con quali rischi, l'affettività omosessuale continuò, in quelle epoche buie, ad esprimersi, nonostante tutto.

 

Daniele