Recensione: Elisa G. Arfini, Scrivere il sesso

Elisa G. Arfini
Scrivere il sesso. Retoriche e narrative della transessualità.
Roma Meltemi 2007
http://www.meltemieditore.it/Scheda_libro.asp?codice=Y059

L'autrice scrive una personale ed interessante introduzione agli studi di genere prendendo spunto dalla transessualità.

Per prima cosa, confuta la comune opinione secondo cui il sesso sia corporeo ed il genere culturale ricorrendo al caso dell'intersessualità - ovvero dell'1,7% dei bimbi che nasce con un sesso che non può essere rilevato in modo certo od univoco, per i quali l'attribuzione anagrafica del sesso ha un che di arbitrario, ed i cui organi genitali vanno talvolta rimodellati per renderli coerenti con il sesso anagrafico prescelto.

Si può pensare che il progresso della medicina sia destinato a ridurre l'arbitrio di queste scelte, ma un esempio (mio, non dell'autrice) mostrerà che le cose non sono così semplici: la sindrome di Morris.

Immaginate un feto con cariotipo 46,XY, e quindi geneticamente maschio; purtroppo il suo corpo è insensibile al testosterone, che pure è prodotto già nella vita intrauterina dai suoi testicoli. Pertanto il suo corpo si evolverà in senso femminile, ed alla nascita mostrerà una vulva non sospetta che lo farà dichiarare femmina dall'ignaro ostetrico.

Nulla smentirà quest'attribuzione fino alla pubertà, anzi: l'apparente bimba si evolverà in un'adolescente apparentemente femminile, senza però mestruo. Il ginecologo si accorgerà che la sua paziente non ha utero, e che al posto delle ovaie ha dei testicoli ormai atrofici - il genetista confermerà la diagnosi.

Nel caso della sindrome di Morris abbiamo dei criteri di attribuzione del sesso in conflitto: i genitali esterni ed i caratteri sessuali secondari (per non parlare della socializzazione) sono femminili, il cariotipo maschile.

Quale criterio debba prevalere è una scelta culturale, e siamo a questo punto autorizzati a ritenere culturali non solo i criteri per l'attribuzione del sesso, ma anche la stessa dicotomia maschio-femmina, che soltanto a partire dal 19° secolo la medicina ha voluto imporre - nel Medioevo ci si rassegnava a considerare i casi di intersessualità (più evidenti della sindrome di Morris, ovviamente) come "ermafroditi" e non si attribuiva loro un sesso particolare.

Ma voler distinguere ad ogni costo i maschi dalle femmine fa sì che ci siano persone che parlino di sé come maschi, ed altre che parlino di sé come femmine. Una classificazione che avrebbe importanza solo riproduttiva finisce perciò con il pervadere tutta la rappresentazione di sé del soggetto ed il modo in cui si presenta agli altri.

Le varie teorie dei generi differiscono nel modo in cui descrivono questo fenomeno; quella che preferisco, di Judith Butler, afferma che il soggetto da una parte è determinato dal genere che gli viene attribuito, dall'altra che l'adesione a questo genere non è data una volta per tutte, ma si rinnova ogni volta che il soggetto interagisce con altre persone, in quanto deve descriversi e comportarsi in modo da convincerle che ad un genere particolare appartiene.

Transessualità significa a questo punto presentarsi in un modo che entra in conflitto con il genere attribuito alla nascita, e con il sesso rilevato in quell'occasione; è un'impresa difficile (in gergo viene detta "passare") ma non è qualitativamente diversa da quello che fa chi non è trans, e non va perciò ritenuta una menzogna.

Molti psicologi hanno affermato che è narrando che diamo coerenza alla nostra esistenza, e nei trans questa coerenza viene messa a dura prova dal fatto che la transizione da un genere all'altro spezza la loro esistenza in due parti di cui la prima non può dar conto dell'altra - per esempio, una trans MtF può passare benissimo da donna dopo l'operazione, ma non potrà mai descrivere come ha vissuto il menarca; la sua "prima volta", se avvenuta prima della transizione, non sarà certo comparabile con quella di una donna; la gravidanza ed i suoi esiti (aborto o parto a termine) non faranno mai parte della sua esperienza vissuta; eccetera.

Ci sono trans che decidono di "scordare" (il termine tecnico sarebbe "scindere") il passato pre-operatorio, ed altr* che decidono di continuare a basare la loro vita su esso - non si ha al momento una ricetta valida per tutt*; ma la preoccupazione per la continuità narrativa sembra alla base dei criteri con cui i "gatekeeper" ("guardiani della porta", cioè la comunità psichiatrica) autorizzano la rettificazione chirurgica del sesso.

Infatti, per convincerli di voler davvero affrontare la transizione, occorre descrivere la propria vita come intrisa sin dal primo ricordo del disagio di essere nel genere attribuito alla nascita, e del desiderio di transitare verso l'altro - cosicché ogni esperienza di vita preoperatoria appaia colorata dalla speranza di essere di un diverso genere, e non appaia estranea al paziente dopo aver compiuto la transizione.

Ovviamente, i/le trans che si descrivono sinceramente, e non per gabbare i "gatekeeper", raramente raccontano storie così lineari - allo stesso modo in cui non ci si può aspettare che le storie di tutti gli uomini e di tutte le donne assomiglino ad un modello prefissato.

Dopo aver spiegato che il genere è più una questione di narrazione che di corporeità, l'autrice descrive alcuni trans interessanti, soffermandosi in particolare su Louis G. Sullivan, trans FtM gay, dacché egli ha lasciato un diario e molti altri documenti d'archivio che permettono di ricostruire abbastanza bene come ella/egli si narrasse a sé ed agli altri.

Una cosa che mi ha colpito nel racconto è che l'identificazione di Sheila (dopo la transizione: Louis) con i maschi gay era tanto forte da farle dichiarare ad una sbigottita interlocutrice di trovare più piacevoli i rapporti anali di quelli vaginali - l'autrice ne inferisce che quest'identificazione aveva cambiato la mappa delle sensazioni corporee di Sheila, rendendola simile a quella che lei immaginava fosse di un maschio gay.

Questo s'accorda con quello che spiega Simone de Beauvoir nel suo libro "Il secondo sesso", ovvero che per una donna attivare l'erotismo vaginale richiede allenamento (mentre quello clitorideo è praticamente attivo dalla nascita), e ci riporta all'argomento iniziale: non è vero che il corpo non è capace di interloquire e va perciò trattato come un dato immodificabile - questo lo sanno da decenni i medici psicosomatici, e lo hanno rispiegato le teoriche del genere.



Raffaele Ladu