Recensione: Francesco Remotti, L'ossessione identitaria


Il libro attacca in modo feroce il concetto di "identità" usato nelle scienze sociali e nel linguaggio politico. Mi perdonerete se rielaboro le argomentazioni del libro in modo personale.

La parola nasce nella metafisica, cioè la branca della filosofia che studia le leggi del pensiero, premessa indispensabile allo studio della realtà, ed in essa indica che una cosa è uguale a se stessa.

Ma ci possiamo aspettare che un gruppo sociale rimanga uguale a se stesso col passare del tempo, allo stesso modo in cui x rimane uguale ad x in matematica?

No. Se non altro perché la mortalità umana impone di avvicendare i membri del gruppo, ed anche le persone cambiano col tempo, tant'è vero che alcuni filosofi citati da Remotti (Pascal, Locke, Hume) hanno messo in dubbio che si possa parlare di identità individuale - aggiungo che il buddismo ha elaborato un'interessante dottrina del "non sé" che è diventata popolare presso alcune scuole psicoterapeutiche.

Ma il filosofo preferito di Remotti è Hegel, che riteneva la nozione di "identità" una tautologia, cioè una verità così ovvia da non dare alcuna informazione, ed ha scritto interessanti pagine sul "riconoscimento".

Ogni persona o gruppo sociale ha bisogno di "riconoscersi" ai suoi occhi ed a quelli degli altri, e per questo ha bisogno di dotarsi di caratteristiche distintive, spesso ispirate all'ambiente esterno. Il "riconoscimento" è la premessa per negoziare con altre persone o gruppi ciò di cui si ha bisogno - beni materiali come il cibo, beni immateriali come la cultura, libertà e diritti.

Il vantaggio della nozione di "riconoscimento" è che invita tutti a rendersi conto che le caratteristiche distintive sono state adottate per scelta, e come tutte le scelte possono essere rimesse in discussione; se invece si parla di "identità", si dà a queste caratteristiche il carattere dell'essenzialità - ovvero, non possono essere in alcun modo mutate senza distruggere il gruppo.

L'esperienza mostra invece che la maggior parte dei gruppi sociali continuano ad essere "riconosciuti" come tali anche quando caratteristiche ritenute essenziali mutano o scompaiono - la storia del popolo ebraico è un esempio molto istruttivo, e già in epoca talmudica ce se ne era resi conto.


C'è un divertente racconto nel Talmud (Menachot 29b) di come Mosè viaggia di 15 secoli avanti nel tempo, si ritrova tra gli alunni di Rav 'Aqiva, uno dei più grandi rabbini della storia, e non capisce quello che sta dicendo. Non per problemi di lingua, ma perché quello che insegna 'Aqiva è diversissimo da quello che insegnò Mosè.

Era così cambiata la legge ebraica in tutto quel tempo! Ma quando un allievo chiede ad 'Aqiva: "Questa norma da dove viene?" ed il maestro risponde: "E' stata rivelata a Mosè sul Sinai", Mosè si tranquillizza (anche se quella norma gli è sconosciuta), perché il richiamo a lui è rimasto come segno distintivo del popolo ebraico.

Parlare di "identità" è quindi ingiustificato dal punto di vista empirico; inoltre questo concetto viene spesso usato in malafede, ovvero per creare esclusione.

Se un gruppo sociale dichiara certe caratteristiche come parte della sua identità, si dà implicitamente licenza di escludere senza appello tutti coloro che tali caratteristiche non condividono.

Se si tratta di un club privato, non fa gran danno (anche se è un club da cui è bene tenersi alla larga); se il gruppo sociale invece è l'insieme dei cittadini di un paese, o addirittura dei suoi abitanti, il danno può essere molto grave.

Secondo Remotti, si è cominciato a parlare tanto a sproposito di "identità" quando sono fallite molte ideologie e filosofie che propugnavano una visione universale del mondo e senza distinzioni tra le persone; le persone hanno reagito cercando pretesti per rifiutare di riconoscere in un altro essere umano il proprio simile, e l'uso della parola "identità" ne è l'esempio migliore.

La parola "identità" spacca le società in tanti piccoli gruppi che non riescono a negoziare nulla, perché dichiarare che una caratteristica fa parte della propria identità significa ritenerla irrinunciabile ed immodificabile; significa anche rifiutarsi di confrontarla e discuterla, rendendone impossibile uno studio serio - più si allarga il novero delle caratteristiche "identitarie", più si restringe il campo della libera ricerca.

Se a questa caratteristica sono anche associate risorse economiche (come ad esempio la possibilità di acquisire la cittadinanza, o di godere di sovvenzioni statali), l'"identità" diventa un pretesto elegante e brutale come un ufficiale nazista per negarle.

Remotti ritiene che la parola "identità" debba essere espunta dal vocabolario dell'antropologo, e che i gruppi sociali debbano lottare non per essa, ma per il "riconoscimento" - una cosa molto più pragmatica, duttile ed onesta.


Raffaele Ladu